Palazzo Bembo (San Marco) – L’iniziativa della fondazione Global Art Affairs, del gruppo curatoriale VestandPage (Andrea Pagnes) e di un team internazionale di storici delle arti a Venezia è destinato a lasciare traccia nel panorama culturale italiano. Mancava infatti una simile offerta ampia e compatta forse da qualche decennio, dopo i grandi exploits proprio italiani rappresentati da eminenze come Acconci o Pane, sempre strettamente legati alle altre live arts come l’improvvisazione poetica e musicale alla Ginsberg, per intendersi; e poco è stato intrapreso (come sperare altrimenti?) da governi e amministrazioni, o centrali o locali, che hanno sostenuto la vita artistica in Italia e a Venezia ad intermittenza, negli ultimi tempi poi sembrerebbero piuttosto spegnerla: la cultura italiana sta infatti vivendo in apnea. Si dovrebbe a questo punto solo sperare che l’iniziativa abbia ulteriori sviluppi e una continuazione, come minimo, biennale.

Tanto più stupefacente è dunque che un manipolo di curatori indipendenti, solo informalmente legati alla gran macchina della Biennale, abbiano potuto mettere insieme questa mostra sulla performance e l’happening, la forma più contemporanea di arte, tra l’8 e il 15 dicembre scorsi. Un ringraziamento alla loro tenacia e alla loro coerenza nelle scelte estetiche. Tra le opere esposte o viste (in alcuni casi sono state time specific) c’è infatti una antologia della performance internazionale: Yoko Ono, VALIE EXPORT, Hermann Nitsch, Jan Fabre, Boris Nieslony, Jill Orr, Goldwater, Snežana Golubović, Manuel Vason, SukaOff, Johannes Deimling, VestAndPage, Santiago Cao, Francesca Fini, Francesco Kiàis, Zierle&Carter per nominare solo una minima parte delle partecipazioni.

Tra le opere e le performances più interessanti quelle di Marina Abramovic/Jan Fabre (live première già nel 2004 al Palais de Tokyo di Parigi, mentre a Venezia è in video) e quelle del colonese Boris Nieslony, quest’ultimo visto all’inaugurazione affollatissima dell’8 dicembre.

Mentre l’opera di Abramovic/Fabre fa leva sui sentimenti ancestrali dei combattenti del Medioevo, reinscenando ventisei posizioni e azioni di lotta tra una combattente ed un combattente in rispettive armature femminili e maschili, Nieslony lavora sull’incontro, Begegnung, che tuttavia assume la connotazione dell’impatto-scontro tra entità o personalità diverse a seconda dei riferimenti simbolici. La sua performance A feather fell down on Venice è allusiva alle diverse modalità di crimine contro il genere umano perpetrato, fino agli estremi del genocidio e della strage, dall’antichità fino ad oggi: l’artista si ferisce il capo mediante la rottura di numerose lastre di vetro, in una prova estenuante. Il rito e la resistenza sono invece centrali nell’opera di Jill Orr (Melbourne) che tematizza la migrazione e lo sradicamento culturale globale nelle sue opere, e più in particolare nella lunga performance dal vivo „The promised land“, vista il 9.12: su di un’imbarcazione di tipo estremo-orientale l’artista impersona le generazioni di migranti che da sempre attraversano gli oceani del settore sudorientale del globo. Il suo momento più intenso è stato quando, verso la conclusione della performance, Jill Orr/Migrante (in stato di semi trance) ha urlato improvvisamente che „It is my duty!!“ raggiungere la terra promessa – e questa esclamazione era la reazione automatica ai proclami di Marina Abramovic, che si sentivano, affievoliti, risuonare dallo spazio adiacente, dove era proiettato il video con Jan Fabre. Potremmo concludere che mai prima di questa volta „The promised land“ aveva potuto essere altrettanto time- e site-specific.

I temi dell’interconnettività, dell’empatia, della resistenza, della lotta sono al centro della performance e quanto mai attuali nel momento presente, che è quanto dimostra d’altronde la partecipazione entusiastica del pubblico veneziano e non solo (le migliaia di visitatori del primo giorno non provenivano certamente solo dalla città stessa); il coraggio dell’iniziativa veneziana, sottolineato da una delle curatrici Jennifer McMillan Johnson, è anche nella sua indifferenza, forse perfino opposizione all’autoritarismo e alla gerarchizzazione all’interno della stessa concezione, e dunque direzione artistica dell’evento.

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