«La natura non è un luogo fisico in cui recarsi, non è un tesoro da custodire o conservare in banca, non è un’essenza da proteggere. La natura non è un testo da decifrarsi in base ai codici della matematica o della biomedicina. Non è l’alterità che offre origine, materie prime e servizi. Né madre né curatrice, né schiava né matrice, la natura non è risorsa o mezzo per la riproduzione dell’uomo. La natura è, strettamente, un luogo comune».

Donna Haraway (1992), Le promesse dei mostri

di GAIA DEL GIUDICE/ Le promesse dei mostri, pamphlet del 1992, riflette sulla condizione umana a partire dalla definizione di “natura”. Haraway ripensa alla modalità con cui relazionarsi con essa, partendo dalla critica all’idea stessa di natura, considerata un artificio umano. Seguendo questo filo interpretativo, si legge l’ultimo lavoro in concorso di Ryusuke Hamaguchi presentato alla 80a Mostra del cinema di Venezia come una ricerca sulla relazione natura/cultura, sulle molteplici visioni culturali possibili di questa relazione, ponendoci di fronte alla costruzione di quella alterità ibrida, mostruosa, artificiale che ha sempre definito i limiti nell’immaginario occidentale.

Aku wa sonzai shinai è un invito a ripensare la dimensione culturale dell’abitare e costruisce una narrazione che concentra il suo fulcro ecologico politico nel piano di frizione tra globale e locale. Le visioni trasformative del mondo si muovono tra una razionalità estrattiva alla base di un pensiero sviluppista che tenta di possedere la natura, e finirà per danneggiarla, e una conoscenza empirica delle interrelazioni ecologiche del villaggio come parte degli ecosistemi della foresta, del fiume e della montagna. Eventi che nella parte iniziale del film sono percepiti come lontani – da dove provengono gli spari dei cacciatori? Sono lontani o vicini? – si avvicinano alla vita del padre Takumi e della figlia Hana.

Se il genere fantascientifico è il terreno più adatto per riflettere sul mondo per la filosofa Haraway, Aku wa sonzai shinai si costruisce invece come una narrazione fluida, una meditazione con l’acqua, la terra e la comunità di Mizubiki, villaggio nei pressi di Tokyo. Il flusso delle immagini scorre sulle note della compositrice di Doraibu mai kā (Drive My Car), Eiko Ishibashi. «Il progetto del film ebbe inizio dalla realizzazione di un filmato per la sua esibizione dal vivo Gift, così il film è stato concepito come “materiale sorgente originale” per il filmato», afferma il regista nelle note di regia.

La storia si articola come un viaggio nel «ventre della foresta». Traghettati da personaggi di confine – Takumi e la figlia Hana, con la comunità del villaggio di Mizubiki – Hamaguchi costruisce un terreno di riflessione sulla dimensione ecologica delle interrelazioni umane in cui noi, esseri ecologici [1], siamo riportati in sintonia e in equilibrio con le cose umane, non-umane e più-che-umane, decidendo in favore della vita, presente e futura. In questa sintonia, allora il male non esiste come dato.

Essere ecologici comporta un cambiamento, un recupero dell’essenza dell’umano, così la storia della comunità di Mizubiki crea prospettive sulle possibilità di vita, immaginazione e conoscenza a partire da narrazioni culturali altre, rivelando come la costruzione del male trovi a partire dalle prospettive evolutive coloniali una base di proliferazione. A partire da questa visione, il film mette in crisi il concetto di modernità, intesa come la grande spaccatura su cui si fonda la sua rappresentazione del mondo: la radicale opposizione tra natura e cultura. «Non siamo mai stati moderni», afferma Latour ed è appunto questo paradigma fondatore che si rimette in discussione per riuscire a capire la costruzione culturale del “noi” come umani e del mondo.

Lesley Lokko, curatrice della Biennale di Architettura 2023 The Laboratory of the Future, nell’illustrazione della mostra riflette a proposito del “noi” politico dell’architettura: «Spesso si definisce la cultura come il complesso delle storie che raccontiamo a noi stessi, su noi stessi. Sebbene sia vero, ciò che sfugge a questa affermazione è la consapevolezza di chi rappresenti il “noi” in questione. Nell’architettura in particolare, la voce dominante è stata storicamente una voce singolare ed esclusiva, la cui portata e il cui potere hanno ignorato vaste fasce di umanità – dal punto di vista finanziario, creativo e concettuale – come se si ascoltasse e si parlasse in un’unica lingua. La “storia” dell’architettura è quindi incompleta. Non sbagliata, ma incompleta».

La domanda con cui Hamaguchi interroga il presente può dunque essere la stessa di Amitav Ghosh ne La grande cecità: come reagisce la cultura e, in modo particolare, la letteratura, e qui il cinema, dinanzi a questo stato delle cose? 

Aku wa sonzai shinai può essere dunque una delle storie del Capitalocene, non si tratta qui della narrazione di un generico rapporto tra umanità e natura, ma dello sviluppo di una storia che pone l’origine della crisi attuale non nell’umanità in quanto tale, ma nelle disuguaglianze strutturali prodotte dall’intreccio storico tra eteropatriarcato, colonialismo, capitalismo e specismo (o supremazia umana sul non umano). La narrazione è una narrazione tutta politica. 

Usando le lenti dell’ecologia politica, Aku wa sonzai shinai si presenta come un monito dei fattori di causalità di una possibile catastrofe – tutto ciò che succede a monte mostra i suoi effetti a valle – partendo dalla visione critica del sistema economico-politico del capitalismo globalizzato. 

Si vede la storia delle espropriazione delle terre comuni ripetersi, il meccanismo delle nuove enclosures acquisire nuovi nomi, la terra della foresta diviene terra nullius da colonizzare, esclusivamente funzionale alla razionalità trasformativa di un capitalismo rentier delle corporation dell’industria del turismo. La razionalità estrattiva predatoria della pianificazione urbana è messa allora all’opera attraverso il film per illustrare le logiche umane produttrici dei possibili mutamenti idrogeologici e antropici della grande foresta. 

Gli abitanti del villaggio di Mizubiki vengono convocati da due funzionari di Tokyo giunti per tenere un incontro illustrativo del progetto di un glamping, che potrebbe offrire ai residenti delle città una piacevole fonte di “evasione” nella natura dai ritmi della vita urbana e costituire una prospettiva di sviluppo per l’economia del villaggio. Gli abitanti del villaggio mettono in discussione la progettazione delle infrastrutture dell’insediamento, a partire dal sistema di gestione delle acque che avrà un impatto negativo sulla rete idrica locale e sulle pratiche consolidate di uso delle acque fluviali per la sussistenza. La dimensione ecologica della vita e delle interrelazioni della comunità con il sistema delle acque, della montagna, della foresta e dei suoi abitanti umani e non-umani fanno da controcampo alla razionalità pianificatoria del progettista, indifferente alla relazione tra insediamento e sistemi ecologici, e agli interessi economici dell’agenzia che intende finalizzare la costruzione del glamping nei regimi temporali scanditi dai finanziamenti. 

L’incontro stesso di partecipazione per la progettazione del glamping viene recepito dalla comunità in maniera critica e inquadrato come un mero passaggio formale, un pigro adempimento funzionale alle griglie formali della progettazione, ben lontano dalla costituzione di un processo democratico. Una dinamica che avanzerà fino al tentativo da parte dei funzionari dell’agenzia di cooptare Takumi, una strategia messa in campo dal progettista per appropriarsi della conoscenza empirica del luogo e pacificare il conflitto politico.

L’architettura del glamping produce nuove enclosures, la terra destinata al progetto è abitata dalla foresta e dai cervi. La costruzione di uno spazio difendibile dalla presenza dei cervi diventa così un elemento di tensione: l’immaginario degli operatori dell’agenzia oscilla tra la paura della dimensione selvaggia e la pacificazione data dalla possibilità di addomesticare i cervi. La foresta si costituisce come uno spazio indifendibile, dove potremmo dire con le parole dell’architetto e urbanista Nan Ellin che «la forma segue la paura» e i muri, le recinzioni sono i dispositivi materiali di sicurezza. La natura si manifesta come illusione, frutto di una idealizzata estraneità dell’umano. 

Per Takumi tutto è collegato, il male non esiste nella dimensione della sintonia. Hamaguchi rivela questa prospettiva attraverso l’azione spaesante di Takumi, che assistendo alla relazione tra Hana e il cervo ferito nella foresta, ferma istintivamente l’agente dal goffo tentativo di salvare Hana dal cervo, lasciando che il percorso di formazione di Hana si muova in relazione con le forze e le creature non-umane. Takumi incarna la conoscenza altra a quella che attribuisce l’origine del male al mondo selvaggio e alla natura. «Il cervo non costituisce un pericolo per gli umani, il cervo attacca quando è ferito dai cacciatori», è il gesto di supremazia umana sul non umano mediato dalla violenza e dalla paura a costituire la possibilità del male.

Gli eventi hanno una connessione intima, sono un prodotto misterioso delle mani umane che torna come minaccia in forma di eventi che mettono in crisi l’idea naturalizzata che la violenza appartenga alla natura, essendo piuttosto esempi della perturbante intimità della nostra relazione col non-umano.

Aku wa sonzai shinai è una possibilità di pensare paesaggio, se il paesaggio è un modo di pensare, e proprio per questo può diventare un buon metodo per affrontare la complessità e per insegnare ad affrontarla [2]. Così Takumi mostra la sua pedagogia, nella rivelazione dell’aspetto paesaggistico della mente.

Hamaguchi costruisce la poetica dello spazio, quello aperto dei grandi orizzonti, del cielo, dei rami intrecciati delle cime e la poetica della foresta come poetica dell’anima: è spesso l’immensità interiore a conferire il vero significato a certe espressioni riguardanti il mondo che si dà ai nostri occhi. L’immensità della foresta, col mistero del suo spazio indefinitamente prolungato al di là del velo dei tronchi, dei rami e delle foglie, è uno spazio velato per gli occhi ma trasparente all’azione. I movimenti della mdp costruiscono la sinfonia di un vento eterno che vive nel moto delle cime. In tal modo, la foresta è immediatamente sacra, sacra per la tradizione della sua natura, lungi da ogni storia umana. La foresta si anima di vite, rumori e movimenti che non ne sconvolgono, tuttavia, il silenzio e la tranquillità. La foresta è uno stato d’animo, la sua pace è una pace dell’anima. Lontani dell’angoscia della paura, noi «siamo abitanti delicati delle foreste di noi stessi» [3].

[1] Morton Timothy (2018), Noi, esseri ecologici

[2] Meschiari Matteo (2017), Geoanarchia. Appunti di resistenza ecologica

[3] Supervielle Jules (1956), L’escalier

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