Se è vero che il cinema è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni, forse per il cinema d’animazione bisognerebbe moltiplicare quest’affermazione al quadrato o anche al cubo. A quel punto potremmo avvicinarci molto lontanamente all’effetto che provoca Paprika dentro lo sguardo, il lavoro di sconvolgimento e di emozioni che attiva all’interno dell’immaginario, della psiche e del cuore, lasciando sedimentare una sensazione di stordimento e al tempo stesso di godimento che ci ripaga di una certa tendenza del cinema contemporaneo a restringere e contenere il campo della visione, invece di arricchirlo, esasperarlo, nutrirlo con i corto-circuiti delle menti degli uomini e delle donne.

Satoshi Kon costruisce la riflessione estetica e filosofica del suo ultimo lungometraggio attraverso la rappresentazione del conflitto tra la realtà che percepiamo ed elaboriamo a livello consapevole e il mondo in cui questa realtà viene riprodotta in immagini dall’inconscio. Quella parte segreta e oscura che, influenzata e suggestionata dagli stimoli provenienti dall’esterno, una volta in contatto con l’interno di ogni singolo, differente individuo, produce realtà singole e differenti – ognuna con i suoi codici da penetrare e interpretare – per risolvere i conflitti e tradurre l’ignoto spazio profondo delle emozioni da visioni confuse e affastellate in logos, in discorso razionale.

Chi è, in fondo, Paprika? È una hacker dei sogni, un folletto dall’aspetto femminile che si muove, tramite un sofisticato dispositivo elettronico generato dalla solita super-equipe di scienziati in un iper-tecnologioco Giappone di un futuro molto prossimo, dentro le menti degli esseri umani, aiutandoli a capire il significato profondo dell’esperienza vissuta durante il sonno e la sua attinenza con la vita reale. Ovviamente l’animazione offre l’opportunità di spingere molto in avanti la soglia del rappresentabile in fatto di sogni ed incubi e la successione di tenero e orripilante, di assurdo e convenzionale, perfino di umano e di alieno, gira vorticosa sullo schermo contaminando corpi, ambienti, suoni e stati emotivi e mentali. Lo stesso cinema “in carne e ossa” viene spudoratamente citato nei suoi titoli e nei suoi generi più emblematici e più legati al Sogno e all’Immaginazione, come nella strepitosa sequenza iniziale dove si passa da Fellini (il circo come luogo infantile di tutte le illusioni e le fantasticherie), ai film di Tarzan e alle spy stories hitchcockiane, fino alla commedia sentimentale (Vacanze romane) e alla degenerazione da incubo della detective story.

Ma Satoshi Kon non fa certo opera di contenimento e fa straripare questa combinazione già di per sé tanto delirante e caricata con l’innesto all’interno di altre realtà sognate, plasmando i sogni di più personaggi in un flusso unico dove la ricchezza e la potenza delle invenzioni animate sono espresse in particolare da una figura ricorrente del sognoincubo: la Bambola, alter ego inquietante del “cattivo” della storia, il presidente dell’industria produttrice del dispositivo per interpretare i sogni che, ritenendo inviolabile e sacro quello spazio, decide di annientare i confini tra la radicale soggettività del sogno e la opinabile oggettività della realtà. Un pretesto drammaturgico che dà ulteriore carburante alla creatura immaginifica scaturita dalla mente di Kon generando un mostro a più teste, dove ogni testa corrisponde al sogno individuale di ogni personaggio e ogni “collo” a dei percorsi che conducono in un unico, ribollente corpo dove tutto è relativo, e dove si passa da un eccesso all’altro, come dal piccolissimo al grandissimo di eroine e di anti-eroi proiettati nella loro immagine ingigantita oltre l’altezza di un grattacielo. La meraviglia della possibilità di questo tipo di cinema sta sostanzialmente in questo, nel fatto che ognuno ha la possibilità di esprimere, di manifestare il proprio mondo sognato e di farlo vivere, a contatto, o meglio a contrasto con gli altri, nel campo neutro e infinitamente esteso dello sguardo.

In Follia d’amore, una delle più celebri commedie di un drammaturgo dolente e appartato come Sam Shepard, il vecchio padre dice al figlio di vedere la foto sulle parete che raffigura una celebre cantante della musica country, sostenendo che quella è stata sua moglie e aggiungendo poi che questa affermazione è realista in quanto quel matrimonio è stato realmente celebrato nella sua testa.

Satoshi Kon ha fatto sedere i suoi personaggi davanti a quella stessa parete e ha disegnato ciò che loro hanno visto dentro la loro mente. Tutto questo è diventato la realtà di un universo a scatole cinesi dove l’accesso e l’uscita non introducono ad un inizio e ad una fine, ma sempre ad un nuovo accesso e a una nuova uscita.

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