Domenica mattina, gelida, ma assolata. Un cielo azzurro terso. E’ una di quelle giornate che ti riappacifica con questa città: basta camminare per i vicoli del centro per rinnamorarsene come il primo giorno, dimenticare che in questi mesi è difficile riconoscersi in quello che sta succedendo nel nostro Paese, cancellare almeno per un attimo la voglia di fuggire… Roma, la capitale, il centro dei poteri, facilmente presa a simbolo dell’Italia intera, ma la sua bellezza in giornate come queste è folgorante. Due passi per i vicoli per arrivare a Campo dei Fiori e quale miglior cinema, se non il Farnese, poteva proiettare stamani L’ora di religione di Marco Bellocchio? Di fronte la statua di Giordano Bruno, messo al rogo dall’Inquisizione. La statua a monito della libertà di pensiero domina la  scenografica piazza, di domenica libera dai vitali banchetti del mercato quotidiano. In questi giorni si è messa a dura prova la laicità dello stato, si sta cercando d’imporre in modo talebano un unico punto di vista, un unico pensiero. La proiezione de L’ora di religione è stata sicuramente organizzata da tempo, ma di questi tempi ha assunto una forza, un’emozione, una bellezza del tutto particolari.

Tutti dovrebbero vedere questo film, credenti e non. Forse aiuterebbe a governare meglio questo paese dove è scomparsa la coerenza, la presa di posizione sincera, dove sta diventando un crimine il solo pensare, porsi domande, dove si vorrebbe vedere uno stato libero e non schiavo della Chiesa. Fa male vedere che il Vangelo, la parola di Dio è strumento di vile potere, di gioco di denaro: come dice provocatoriamente il conte Burla nel film: “L’Italia è dominata da un monarca assoluto, il Papa che domina su tutte le coscienze. Per ritrovare la democrazia avremmo bisogno di un monarca assoluto che ridia anche le terre alla Chiesa ma tolga i crocifissi dalle scuole”. La Chiesa non dovrebbe occuparsi di spiritualità, di ciò che concerne lo spirito? Fa male al cuore vedere Piazza San Pietro mercificata da cartelloni pubblicitari della Wind, deturpata da transenne, baldacchini, maxischermi, usata a parcheggio nei giorni delle grandi riunioni: non è un luogo d’infinita bellezza, non dovrebbe essere un luogo di preghiera?

Bellocchio urla alle coscienze non sincere che usano la religione come merce: “Meglio avere un santo in famiglia, fa sempre comodo… se in Italia non sei protetto da qualcuno non vai da nessuna parte”: dolorosa verità!

Assistiamo quotidianamente alla svendita della fede con fiction, Porta a porta sui beati, i miracolati: la fede non dovrebbe essere vissuta in silenzio? Non andrebbe vissuta con coerenza e non con le proprie personali eccezioni? Ma conviene fingere, con gli altri e con se stessi. Conviene prestar fede, senza avere fede. Conviene barattare incoerenza e obbedienza con tranquillità, denaro e carriera.

Tanto attaccamento alla vita che deve ancora essere o a quella che non è ancora è urlato a gran forza. Perché non si fa lo stesso verso la guerra, la pena di morte, l’uccisione “bianca” di migliaia d’immigrati (che rischiano di morire per paura di farsi curare/denunciare)? Questo aiuta ad alimentare  il clima politico del nostro paese dove meno si pensa meglio è perché così si è più succubi e cresce maggiormente la paura: paura del diverso, dell’inferno, del giudizio, insomma la parola d’ordine è PAURA! E con la paura si tiene tutti succubi e proni. Ma la Chiesa non dovrebbe portare un messaggio di speranza e non di paura? Di vita e non di morte?

La debolezza – se di debolezza vogliamo parlare – del film è forse quella di portare avanti un’ideologia (quella dell’ateismo), attraverso il protagonista, chiusa in se stessa, chiusa al confronto  e al dialogo con i credenti (o i cosiddetti tali). Ma anche i credenti sono chiusi nelle loro posizioni: in verità in entrambe le posizioni nessuno s’interroga veramente alla ricerca della verità, dell’ascolto e dialogo (anche dialettico) con l’altro.

A seguire il film entrano in sala accolti da un bell’applauso Marco Mueller (MM), Marco Bellocchio (MB) e Saverio Costanzo (SC) che s’incontrano sul piccolo palco del Farnese per parlare del film e di cinema.

MM: Marco, ci dirai perché non sei riuscito ad imporre anche in Italia il titolo bellissimo di Il sorriso di mia madre, titolo con cui il film è uscito in Francia e in altri paesi. La prima volta che abbiamo fatto la personale di Bellocchio a Locarno nel lontano 1998 abbiamo trovato tantissimi documenti. Ho insistito con Marco perché accettasse di aprire il volume con una cartolina che gli scrisse Bernardo Bertolucci, ti ricordi? Che diceva sostanzialmente “Caro Marco Bellocchio ho visto Il sogno della farfalla, non so se mi ha convinto completamente, ma sono rimasto abbagliato perché il tuo cinema è il cinema di un amante della bellezza, è un cinema che muove dalla bellezza e non dalla sceneggiatura”. Al di là della condivisione di una straordinaria montatrice che è Francesca Calvelli, rivedendo L’ora di religione mi sembrava importante che ci fosse qui Saverio Costanzo, perché forse Saverio sta interrogando molti di quei soggetti che avevano interessato Marco Bellocchio nei primi anni della sua carriera, cercando di dare in parallelo delle risposte alle risposte che Marco sta cercando con i suoi film. Uno degli elementi fortissimi del cinema di Bellocchio è il voler essere sempre in qualche modo incredibilmente provinciale nel modo più produttivo e creativo che ci sia. Il tuo cinema Saverio, invece, si confronta con realtà che non necessariamente hanno a che fare con le tue esperienze (almeno per il primo film).

SC: Ho la fortuna di condividere Francesca Calvelli con Marco. Siamo diventati amici e così ho potuto fargli leggere le cose che scrivo. Stamani prima di venire riflettevo su cosa dire a questo incontro, tentando di prepararmi qualcosa che fosse interessante. Ho cercato di rispondere a questa domanda: cosa m’insegna il confronto con Marco? Quello di cercare di partire da un’immagine, prima che dalla storia. Provammo a scrivere insieme una cosa, un anno fa, c’erano un po’ di elementi in ballo, c’era l’idea di raccontare l’estate, la costa… Marco mi chiama un sabato mattina raccontandomi la scena iniziale ed era la scena di un pazzo. Quella scena veramente sintetizzava con le immagini tutto quello che il film avrebbe detto. Sarebbe bastata quella sola scena. La genesi del film non seguiva un percorso razionale, narrativo, ma solo un’immagine. Che significava delle cose, che diventava emozione. Non so se sono stato chiaro… Questo modo di approcciare al cinema e questo confronto è stato utilissimo, lo è. Essendo arrivato in modo fortunato e casuale a far cinema  e dovendo ancora capire da che parte sto, parlo da neofita vero, quello che per me potrebbe essere stata un’illuminazione magari è una cosa scontatissima, non lo so, però per me è stata utile.

MB: Dunque… non è facile… Mi ha molto colpito che tu abbia ricordato la cartolina di Bernardo, che chiaramente aveva colto in quel film (che tra l’altro non avevo scritto io ma Fagioli
) un rischio. Quello è un film da una parte ideologico, che rispondeva a una teorizzazione, dall’altra affrontava un tema che rompeva con la drammaturgia tradizionale, direi occidentale, e in questo senso era molto ardito. L’ora di religione per motivi potremmo dire commerciali, per i rapporti con il pubblico italiano, ha mantenuto questo titolo. Il sorriso di mia madre è rimasto in altri paesi, anche se ha una profondità e una universalità maggiore. Riguarda, infatti, la “tragedia” o la “non tragedia” del rapporto tra la madre e il neonato, rapporto che riguarda tutti gli esseri umani di questa terra. L’ora di religione conferma quello che dicevi tu: partire da un’immagine e non tanto da una tesi, da un concetto o da un’idea. Certo l’idea è dentro l’immagine: il nostro è più un lavoro da pittori o da musicisti. Al tempo stesso, però, c’è una costruzione e un rapporto con il passato che si è elaborato successivamente nella sceneggiatura, come i riferimenti a I pugni in tasca: anche qui c’è un matricida, ma visto e sentito con sentimenti diversi. In questo senso potrebbe essere anche interessante rivedere quella tragedia attraverso un personaggio normale. Il protagonista non è eroe, è qualcuno che capisce che per vivere è necessario fare delle scelte e prendere delle decisioni, che non si può stare nel compromesso tutta la vita.

MM: Volevo chiederti proprio a proposito di un film così onirico e oppressivo com’è L’ora di religione – così come sono stati tanti dei tuoi film dai quali ci immaginiamo non tanto di riconoscere il tuo universo personale, ma addirittura una rivisitazione continua della tua storia – hai mai pensato all’unità stilistica del tuo cinema? Se devo trovare un equivalente, lo potrei chiamare un film di stile espressionista. In realtà il cinema espressionista non è mai esistito perché il cinema di stile espressionista è nato quando l’espressionismo in pittura, letteratura e architettura era già morto, ma c’è qualcosa che possiamo riconoscere come stile espressionista nel tuo cinema…

MB: Un’unità stilistica vera e propria no. Ma ho sempre cercato di essere libero di lanciarmi in storie anche molto irreali contenendole in un’apparenza di realtà, escludendo almeno per ora le deformazioni tipiche dei grandi capolavori dell’espressionismo che non erano nelle figure umane, ma nelle scenografie. Forse potremmo definirlo un espressionismo realista, un’aspirazione costante e insopprimibile di andare oltre il realismo che è lo stile dominante nel cinema mondiale.

MM: In L’ora di religione affermi una cosa della quale credo tu sia assolutamente convinto e cioè che il piccolo-medio borghese, la sua ideologia, la sua cultura, le sue tradizioni ormai non hanno nessun valore. Può anche continuare a ripetere all’infinito quella cultura, quelle tradizioni ma risulteranno sempre più morte e sempre più cadaveriche. Lo senti molto nel film. Nominavamo prima Nel nome del padre che è di più di 30 anni fa (1971): lì veniva ancora postulata una possibilità di un legame tra la classe privilegiata e la classe diseredata e oppressa, c’era un’eco delle lotte studentesche. La necessità di quello scontro sta sempre fuori campo, ma non troppo, ne L’ora di religione: la necessità di quello scossone è l’unica risposta per un personaggio come quello di Castellitto. Se pensate all’ultimo film di Saverio, anche lì il percorso della ribellione non ha la trascrizione lineare alla quale tanto cinema storico italiano ci aveva abituati.

SC: Nel nome del padre fu sconvolgente. Io non l’avevo visto. L’ho visto mentre lavoravo al mio film, In memoria di me: era come il punto di vista ribaltato, era come l’opposto. Infatti, Bellocchio mi diceva: noi nascevamo pompieri e diventavamo incendiari, giusto? Ora mi confondo… Insomma, noi oggi spegniamo i fuochi che loro accendevano. Sono due film in qualche modo speculari, all’opposto. Di certo c’è l’età di mezzo. Nel nome del padre era del ’71 e raccontava di un ragazzo che entrava in un collegio cattolico di preti severissimi e organizzava una ribellione. Nel 2007 è un ragazzo che va a cercare “libertà” in un luogo di clausura. Non è costretto, ma va per sua volontà. Non so cosa significa, forse niente di allegro… Ma è quello che è capitato dal ’71 al 2007. A me, grazie a Dio, non a tutti quanti.

MB: Pensavo a questa triangolazione. In Nel nome del padre ci sono ancora tutta una serie di grosse eredità, di riferimenti all’ideologia, alla politica: i servi sono coloro che possono cambiare la società, che vengono sfruttati e oppressi. Questa non è la cosa più originale del film, ma c’è. L’originalità era l’esperienza drammatica dei collegiali, anch’essa trasfigurata. Anch’esso è un film espressionista: gli stessi frati, quando videro questo film, temendo di essere portati allo scandalo dissero che nel loro collegio queste cose non accadevano. In effetti è vero. Io ho un ricordo del collegio di San Francesco di Lodi, dove sono stato, piuttosto opaco, sottolineato semmai da una certa mediocrità ma non dall’orrore, non dalla violenza. Il discorso invece di In memoria di me e de L’ora di religione sposta lo scontro. Ne L’ora di religione viene caratterizzato dal fatto che questo uomo buono, ma forse un po’ indifferente, che ha dimenticato, ma non ha superato certe cose, improvvisamente viene posto davanti a delle scelte. Come oggi nelle tragedie che sono appena avvenute. Dove stare? Da che parte stare? Capisce che l’opporsi, il rifiutare di essere coinvolto, di non rendersi complice di questa santificazione diventa per lui un elemento di possibile cambiamento e trasformazione. Questo rientra in un discorso che prescinde dalla trascendenza. In In memoria di me in qualche modo non è un confronto che prescinde dalla trascendenza, ma anzi ne è un aspetto interno. Non voglio indagare in cosa uno crede, ma è come quando recentemente un ex sacerdote mi propose di fare un film sulla sua storia. Gli dissi. “Io non credo. Se per farlo, è necessario credere, non posso farlo”. In questo senso in In memoria di me, rimane un punto interrogativo, mi sono chiesto: “Ma l’autore?”… ma è domanda privata che non voglio fare…

SC: L’autore crede o non crede? Forse crede con la testa, e non crede con il cuore. Quindi non crede. Non lo so… non lo so… Era un film e non si era posto questa domanda. Forse è questo il suo limite: credere con un pensiero ma non con l’esperienza.

MM: Va ringraziata l’Officina Film Club per aver scelto L’ora di religione che è un film su cui vale la pena ritornare. Ricordiamo, infatti, di Marco i film che hanno proposto la possibilità di un nuovo cinema. Di cosa ci ha parlato il cinema di Bellocchio? Prima delle istituzioni chiuse: il collegio di Nel nome del padre, l’esercito di Marcia trionfale, il manicomio di Matti da slegare. Della necessità obbligata di una ribellione e della possibilità della sconfitta dei giovani contro queste is
tituzioni chiuse. Ma ci sono elementi che continuano a tornare prepotentemente, anche in questo film. Marco ci ha parlato come pochi altri della famiglia e di un senso della famiglia che può esistere solo in provincia, pensiamo a film come I pugni in tasca, Il gabbiano, Salto nel vuoto, Gli occhi e la bocca. Ricordava Saverio parlando di questa sceneggiatura che non hanno completato, la scena iniziale. Nel cinema di Marco, c’è sempre nascosta la tentazione della follia come se potesse essere la soluzione a cui siamo condannati. A me sembra che L’ora di religione possa suggerire una risposta diversa. Mi sembra che Castellitto cerchi il modo di chiamarsi fuori da sé anche in un’altra maniera, che non parta per quella tangente, ma non sa bene dove trovare la sua autonomia…

MB: Il personaggio del film individua irrazionalmente dei punti di contrasto e di rifiuto rispetto a quello che gli viene proposto. E’ chiaro che tutta la mia formazione e la lunga esperienza fagioliana, che è ed è stata un’educazione sentimentale estremamente importante, mi ha fatto riconoscere la differenza tra un tipo di follia distruttiva e una follia, che è anche del personaggio di Castellitto nel film, che anche se in maniera goffa, si lascia andare al sentimento, e parlando coi fratelli, ammette delle possibilità sentimentali, che sono tutt’altro che disprezzabili. Sono convinto che ci sia da una parte una follia che esprime una ribellione, ma che porta una distruzione e, dall’altra, non tanto una follia positiva, ma una irrazionalità che può sembrare folle, ma non lo è.

Dal pubblico interviene Pasquale Squitieri: Tu sai quanto amo il tuo cinema. In questo film che ho rivisto oggi, ci sono 3 duelli, tre scontri. Un forte duello dialettico tra il protagonista e il vescovo. Un duello reale alla sciabola e un duello amoroso/sentimentale tra Castellitto e la donna. La cosa che mi ha sorpreso è che nel primo, nel duello dialettico, lui parte con un pre-giudizio nei confronti del religioso per cui tutti i colpi che porta il religioso cadono nel pre-giudizio. Nel secondo duello, quello reale, è il nobile che ha un pre-giudizio essendo lui uno schermitore ben preparato e l’altro un improvvisatore. Tutte e due i duelli hanno una debolezza da una parte o dall’altra gestita dal pre-giudizio di uno delle due parti. Il terzo scontro invece è talmente puro, autentico, privo di ogni “giudizio”, ti sorprende e ti rende consapevole che la vita (e tu segui la vita seguendo la ragione, la parola, l’immagine, la musica, tutto quello che fa parte della vita di un uomo), improvvisamente diventa fatalistica. Ci lasci con quel finale nel fato. E’ una mia impressione banale?

MB: Come in amore, è qualcosa di molto raro, ma che esiste… Le parole per me sono difficilissime… scrivere una sceneggiatura è sempre difficile, anche un disegno è mediato, ma si avvicina di più all’idea che ho dell’immagine. La parola scritta per me è insopportabile. E’ un mio limite, trovare delle persone con cui collaborare. Io non direi che c’è un finale fatalistico. Anche se è un finale aperto: tutte le opere d’arte sono aperte. Lui fa un’azione che è combinata alla precedente. A un certo punto c’è un saluto sbrigativo con questa donna, potrebbero rivedersi, come no, potrebbe nascere una storia d’amore… Accompagna il figlio a scuola mentre il grosso della famiglia va in udienza dal papa.

La questione del pregiudizio: per quanto riguarda il duello. Siamo nella soggettività pura. Il conte Bulla è un personaggio assurdo, in questo senso espressionista, perché totalmente irreale, è un provocatore che in qualche modo vuole scoprire, svelare questo suo sorriso – che è il sorriso di sua madre (in questo senso il titolo vero di questo film è Il sorriso di mia madre) sembra un personaggio dell’800, assurdo, ma in realtà è dal mio punto di vista un personaggio positivo. Il pre-giudzio con il cardinale…

PS: Perdonami, il pregiudizio consiste nel dire “Io non credo” come premessa, per questo pre-giudizio

MB: Ah in questo senso… beh perché uno non può dirlo?

PS: Certo che uno può dirlo, ma io ho sostenuto che è un duello dialettico

MB: Il duello tra lui e il cardinale?

PS: Parte da un pregiudizio molto forte.

MB: Dici che è un pregiudizio? Ci vorrebbe un linguista. Tu Marco che dici?

PS. Pre-trattino-giudizio, intendiamoci, non nella forma ovvia, ma nel senso di avere una cultura solida, all’ombra della quale portare avanti una dialettica, che poi è un’ideologia.

Dal Pubblico: Ma anche il cardinale

PS: No il cardinale ha una fede, è diverso

Dal Pubblico: Per chi crede…. Ognuno dei due crede in fondo di sapere.

MB: Ora non ricordo tutto il dialogo, non credo che lo dica così subito…

PS: Lui si siede e lo afferma…

MB: Ah lo dice così? Prima ancora di … ehhh

PS: Mi è capitato una volta d’incontrare un grande artista ebreo. Appena si è seduto al tavolo a parlare, come prima cosa mi ha detto: premetto che sono ebreo. Mi ha terrorizzato perché qualunque cosa potessi dire io poteva assumere per lui un significato antiebraico. Comunque lui (il personaggio di Castellitto) affronta la tematica con pre-giudizio. Tutto quello che dici non mi interessa, te lo dico prima, te lo dico appena mi sono seduto, puoi parlare ore e ore, mi stai infastidendo, tanto tutto quello che tu dici non mi interessa…  Pensa se in questo dialogo tra te e me in questo momento tu fossi partito da un pre-giudizio: “Squitiè, non ti ascolto, non mi interessa quello che dici, non mi interessa…”

MB: E’ molto interessante quello che tu dici: se la fede è una discriminante è chiaro che è difficile trovare un punto di rapporto nel dialogo.

MM: Nel duello di scherma, Marco ha avuto un po’ meno pudore del solito nell’andare fino in fondo all’azione. Solitamente si ferma prima della possibilità di rilevare un significato attraverso le azioni. L’azione è lasciata fuori campo.

[…]

PS: L’azione del fratello che bestemmia e l’abbraccio è un’azione fortissima.

MM: Vi lasciamo con un piccola nota di colore. La scena dell’abbraccio ha sortito una reazione fortissima nel villaggio dove ogni tanto Bellocchio si rifugia e che Francesca Cavelli chiama il “telefono grigio”. Dopo la proiezione in piazza del film è improvvisamente  comparsa di fronte a casa loro una statua della Madonna ricoperta di gigli. Neanche degli spettatori di campagna si sono sbagliati sulla potenza del film.

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