Una ragazza, un cane, un porcellino d’india e un acquario. Questo strano microcosmo domestico dimora nell’involucro massiccio e squadrato dell’Eur in una sospensione atemporale agostana. Proiezione di uno stato d’animo intrappolato in attesa di una scelta, di un cambiamento.L ‘incapacità di pensare al futuro. Nina non riesce a prendere decisioni sulla propria vita ed è fissata con la Cina dove, chissà perché, spera di poter andar a vivere.Il sogno di un viaggio che pare quasi rappresentare l’abbandono della Terra verso un approdo su Marte. Nina  rifiuta la realtà, l’amore, le persone, chiudendosi nel suo solipsismo meditativo concentrato in esercizi di calligrafia cinese.

La parola crisi, scritta in cinese, è composta da due caratteri. Uno rappresenta il pericolo e l’altro rappresenta l’opportunità.

“Prima di un grande inizio ci deve essere il caos.” ma nemmeno il prof. De Luca con le sue lezioni di haiku in napoletano è in grado di fare chiarezza nella vita della ragazza, anzi sembra ogni volta rimescolare le carte. Così continueranno ad avvicendarsi il silenzio, l’imprevisto, la nostalgia e il misterioso.

Diversamente da Amélie Poulain, che ha come scopo quello di intromettersi nelle vite altrui per ridare felicità al prossimo, Nina si limita ad osservare. Esplora a distanza, come una turista di passaggio, le cose e le altre persone.

L’unico vero confronto esistenziale lo avrà con Ettore, un bambino di undici anni che incarna la sua coscienza. Tutti gli altri personaggi che compaiono e scompaiono continuamente come miraggi sembrano essere solo pezzi, frammenti che riflettono la sua condizione attuale. Esistono o non esistono? La stessa Nina più che un personaggio è un’idea;  lo stato d’animo di una generazione di trentenni che vivono una precarietà esistenziale in una condizione d’immobilismo.

Anche se trattasi di precarietà esistenziale privilegiata e borghesissima rispetto a situazioni reali decisamente più drammatiche e davvero senza respiro. Nina contempla senza tristezza è solo simpaticamente inquieta poichè ha una casa dove tornare, fa costose lezioni di scrittura cinese, quando si sente ‘chiusa’ ricorre a sedute di agopuntura, spende cifre spropositate in gigantesche coppe gelato e torte alla faccia della povera Amélie Poulain che si accontentava di spezzare la crosta della crème brûlée col cucchiaino.

Anche il cane Omero, dicono, pare soffra di depressione per non parlare di Armando il povero porcellino d’india a rischio obesità, troppo pesante  per girare nella sua ruota. Le uniche perle di saggezza escono dalla bocca di Ettore, misterioso bambino che Nina consulta come un oracolo ai piedi del Palazzo della Civiltà Italiana.

Di esistenze precarie, sullo sfondo di una torrida estate metropolitana, ne aveva parlato anche Matteo Garrone in Estate romana ma decisamente con toni, ritmi, personaggi, sensazioni, umanità, visioni nettamente opposte a quelle del film Nina anche se ad accomunarli c’è lo stesso senso di spaesamento/isolamento che porta a lasciarsi trasportare dagli eventi e dagli incontri. Uno psicologico caos afoso romano in cui è molto improbabile che gli scarrozzati di Garrone incrocino questo alter ego di Elisa Fuksas.

Visivamente Nina è molto ambizioso ricercando continuamente un’estetica spaziale forte e troppo finalizzata a se stessa. Esplora le spettralità geometriche di architetture monumentali. Insolitamente valorizza quel gusto cinereo di claustrofobici androni condominiali o appartamenti dal triste e spento nericcio. Un alternarsi di nericci, marmo bianco e travertino.  C’è un’accurata selezione di luoghi d’innata bruttezza che acquistano un fascino perverso con l’aiuto di qualche indefinibile inserto surreale.

Orribili terrazzamenti cementati con scorci d’insegne luminose diventano ambienti giocosi d’incontri notturni. Avvilenti sale prova parrocchiali con suore che slittano via senza toccare il suolo.

Perfino il cimiteriale interno del Palazzo dei Congressi si trasforma in uno spazio mistico, un enorme tempio in cui perdersi. Sotto gli anonimi colonnati si consumano scene oniriche con giganteschi origami, lievi manipolazioni fiabesche alla Michel Gondry ma appena accennate.

Gli elementi autobiografici prosperano, lo spazio incombe e l’espressione verbale si riduce al minimo. Le parole volano, scorrono via attraverso pensieri a voce alta e segreterie telefoniche non posandosi mai da nessuna parte. Sembrano  rivolgersi ad un universo ‘altro’,  non appartenere a chi le pronuncia.

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