Mavi è una giovane donna che naviga nel caos senza altro timone che la propria paura. Ha probabilmente subito un abuso sessuale inflittole ambiguamente dal padre quando era piccola, un padre che ancora le chiede di occuparsi di lui e della sua brutta vecchiaia e che ancora riesce a farla sentire in colpa come una bambina. Mavi, dunque, è una bambina: è rimasta bloccata all’età in cui si sperimenta per la prima volta, e nel modo più feroce, il tradimento, quello da cui poi si fuggirà tutta la vita, in un’incontrollata traiettoria infetta del terrore d’essere abbandonata e dall’impossibilità di accettare un legame che non sia fondato su dipendenze patologiche. Ma la figura senza respiro di Mavi non viene approfondita e inserita in un contesto esperienziale significativo, preferendo il regista “partire da sé”, ovvero dal protagonista, l’astrofisico Teo. E quindi la storia di Mavi diventa la storia di Teo, ovvero l’ennesima storia di come l’irrazionalità tutta appannaggio del femminile può portare turbamento e follia nella vita ordinata e razionale dell’uomo di ingegno di turno. Cliché, questo, tanto caro a certo cinema autoriale, che tra ebetismi vitali (si pensi al ruolo della Sandrelli ne Il conformista, ad esempio, e di fatto a tutti quelli che la pur brava attrice ha interpretato in tanti anni, e tante età, eccezion fatta per il “corretto” e bellissimo Io la conoscevo bene) e religiosità mistiche ne ha esplorato le immaginifiche, mistificanti potenzialità, abusandone in perfetta malafede. Come ridurre la complessità, spesso urticante, nel brodo tiepido e reazionario dell’idealizzazione.
Del Monte, regista sensibile e interessato da sempre alla figura dell’Altro come specchio dell’io (Irene Irene, Giulia e Giulia, Piso Pisello sono i titoli di alcuni suoi film passati), non sembra metterci alcuna intenzione nella rappresentazione di questo stereotipo, non sembra insomma disegnare maliziosi perimetri dando l’impressione di aprire squarci in chissà quali abissi, e però, e a questo punto si direbbe ingenuamente se non superficialmente, a conti fatti non sfugge al manicheo e ottuso cliché. Perché quello che rimane non è ciò che accade nel mezzo dell’incontro tra Mavi e Teo, ma la protezione e la compassione che un uomo razionale, anche se attratto dall’energia delle stelle, dà ad una donna fragile e irresponsabile votata a una espiazione autodistruttiva. C’è una divisione netta nell’attribuzione dei ruoli, e il desiderio non sembra nutrito da quella reciprocità che ne permette lo scorrere (la storia d’amore di Lezioni di piano è una sintesi perfetta di un incontro libero dal gioco dei ruoli e per saperne di più leggete qui).
C’è anche un procedere per accumulo che satura le situazioni – troppe – che alla fine rimangono corpi stagnanti privi di un qualche collegamento significativo (tanto la linea quanto l’amata metafora sembrano sfuggire al regista). Se insomma in Piccoli fuochi, film anomalo e affascinante in cui un bambino desidera essere il compagno della misteriosa baby sitter, Del Monte riusciva a mostrare le scintille di un incontro e a costruire un enigma psicologico avvincente e allusivo, in questa ultima prova la schematicità delle relazioni, le identità allevate a monocolture e la mano spesso pesante nel disegnare le emozioni non sembrano lasciare dubbi sulla non riuscita del film. Oltretutto, la troppo atletica Smutniak (Mavi), che finalmente non accompagna più solo il cane (era il desiderio intravisto nel parco di Caos calmo da Moretti), non è la dissonante e sensuale Golino – quella dei vent’anni di Piccoli fuochi, però, non la manierista nevrotica che, ancora nel parco, strapazza il caos calmo di un sempre più complesso Moretti.
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