Le retrospettive che i festival dedicano ai grandi autori, soprattutto quando si tratta di cineasti dalle filmografie vaste e complesse, possono creare delle singolari e talvolta feconde vertigini, associazioni impreviste tra pellicole e pellicole, che a volte illuminano percorsi interni alle filmografie fino ad allora rimasti poco battuti, in altri casi mettono in discussione dei tracciati consolidati.

Qualcosa del genere è successa qualche giorno fa al Napoli Film Festival, quando il programma della rassegna monografica dedicata a Andrej Arsen’evič Tarkovskij ha proposto di seguito e nella stessa sala Lo specchio, film della piena maturità del maestro russo, collocato giusto a mezza via (1975) tra le pietre miliari Solaris e Stalker, e Il rullo compressore e il violino, saggio di diploma realizzato dal regista nel 1960, a soli ventotto anni. Da una parte uno dei capisaldi della poetica tarkovskijana, una pellicola amata da almeno un paio di generazioni di cinefili e largamente semiotizzata dagli studiosi, un blocco di senso di invidiabile quanto intimorente monoliticità; dall’altra un mediometraggio giovanile, la prova di regia di un giovane studente del mitico VGIK di Mosca (la più antica scuola di cinema del mondo), immerso nella scoperta del mezzo-cinema quanto, probabilmente, di se stesso.

Alcuni punti di contatto tra le due opere, le tracce di una continuità “fatale” per un cineasta dall’autorialità così potentemente riconoscibile come Tarkovskij, sono apparse alla visione immediatamente chiare. Il rullo compressore e il violino racconta dell’amicizia tra Sasha, un ragazzino di otto anni che ha appena fallito l’esame di violino ed è un po’ succube delle prepotenze dei suoi coetanei, e il fiero Sergej, operaio addetto al rullo compressore. La cura per la composizione dell’immagine è già in questo film molto evidente, in particolare per il lavoro sulla luce e sul colore. Nella fotografia di Vadim Yusov, il grande operatore con il quale Tarkovskij inizia qui una collaborazione che proseguirà fino a Solaris, spicca il vividissimo rosso, di ovvia predominanza politica, del mezzo meccanico guidato dall’operaio e della camicia del piccolo protagonista. È già presente e ben viva, poi, l’ossessione per l’acqua e per le superfici riflettenti, filtri costanti attraverso cui il futuro regista di Andrej Rublëv guarda e restituisce la realtà.

Tuttavia, uscendo dal frammentario flusso di autocoscienza audiovisivo de Lo specchio e immettendosi quasi senza soluzione di continuità nella lineare semplicità del racconto de Il rullo compressore e il violino, l’impressione di alterità è stata profonda. Le atmosfere visionarie sospese, l’enigmatica rarefazione narrativa del primo hanno lasciato improvvisamente il posto, sullo schermo, a un’immagine nitida e chiara, spesso solare, e abitata da un protagonista, il piccolo Sasha, privo dell’intellettualismo che sarà proprio del cinema di Tarkovskij a partire dagli anni ‘70. Nei quarantasei minuti del breve film, sceneggiato dal cineasta russo insieme al collega di corso e anche lui futuro regista Andrej Michalkov-Končalovskij, seguiamo il girovagare del ragazzino, e attraverso i suoi occhi – insieme a lui – scopriamo il mondo, ancora vergine, prima che la possente visione tarkovskijana lo ri-significhi. Certo, l’influenza della politica culturale socialista si fa sentire nelle implicazioni di un soggetto dalla forte impronta didattica, deputato a consacrare in immagini l’alleanza tra vecchio e nuovo, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ma all’interno di una cornice ideologica probabilmente imposta, Tarkovskij trova una cifra poetica propria, sorprendendo lo spettatore nel montaggio che eleva la musicalità del rullo compressore a quella del violino e commuovendolo nella scena in cui Sasha suona per Sergej. Il suo è qui un cinema libero e felice, che trova nella sua acerbità una qualità preziosa. Alla fine l’amicizia tra i due protagonisti è destinata a finire, ma grazie alla sua fantasia, e ovviamente attraverso lo specchio, il bambino trova il modo di tenerla in vita nella sua immaginazione.

Forse, più che a un eroe del realismo sovietico o a un personaggio del Tarkovskij maturo ed ermetico, il piccolo Sasha, nel suo selvaggio accostarsi alla vita, assomiglia di più a quel suo quasi coetaneo francese che guarda caso, proprio in quegli stessi mesi ma a centinaia di chilometri di distanza, fissava gli spettatori dritto negli occhi mentre correva sulla riva del mare, e così facendo stava cambiando la storia del cinema.

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