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n occasione dell’Aniene Film Festival ripubblichiamo lo speciale su L’uomo che verrà di Giorgio Diritti.

Quando siamo andati a vedere il film di Giorgio Diritti, L’uomo che verrà, credevamo, un po’ sorpresi, visti i tempi, di andare a vedere un film sulla resistenza: l’eccidio di Contesole nell’Appennino emiliano, avvenuto tra il 29 settembre ed il 5 ottobre del ’44 ad opera di un battaglione di SS comandate dal maggiore Walter Reder, come azione punitiva nei confronti della formazione partigiana Stella Rossa e della popolazione che l’appoggiava sembravano argomenti che volessero richiamare una tematica tanto centrale quanto difficilmente indagata attraverso un racconto storico dal cinema italiano, quella della resistenza e della guerra partigiana appunto. Sorpresi perché oggi, nella società di cui facciamo parte, poco spingerebbe a rivisitare un periodo che nessuno sente nemmeno di chiamare più in causa, tanto sembra esecrabile il livello di scontro esplicito che lo ha attraversato, tanto incomprensibile il contesto storico che lo ha mosso e determinato.

Usciti dal cinema ci interroghiamo su come definire l’oggetto di un film, che decisamente, pur raccontandoci la vicenda subita dai piccoli comuni dell’Appennino bolognese durante l’occupazione tedesca in Italia, pur mostrando momenti di guerra partigiana, “non parla della resistenza”. Per cercare di esprimere quello che la visione della pellicola ci ha trasmesso, due aspetti sembrano focalizzare la nostra attenzione: il contesto indagato ed il punto di vista prescelto.

Il film si concentra nella ricostruzione accurata di un microcosmo, una fattoria di mezzadri dell’Appennino emiliano abitata da una famiglia numerosa, tutta concentrata a portare avanti la propria sopravvivenza attraverso i propri tradizionali meccanismi di riproduzione: tutta la scena allora, specialmente nella prima parte, è dedicata alla rappresentazione minuziosa di questo universo contadino, delle sue attività quotidiane, dei suoi rapporti personali. Attraverso questa lente di ingrandimento, la realtà contadina di Montesole appare piena, gonfia di vita, dura, ma dotata di senso, di regole e meccanismi chiari e funzionali, di un suo equilibrio e una sua necessità: è un mondo, una dimensione faticosa, ma reale, comprensiva di tutto l’orizzonte dell’umanità che ne fa parte. È la compattezza di questo mondo che si impone a chi guarda, quello sembra essere il centro dell’interesse del regista. Accade poi che questo mondo venga attraversato da un evento esterno, forte, traumatico e repentino, con tempi, ritmi, logiche diverse da quelle conosciute e praticate in una dimensione che è sempre storia, ma in confronto ben più lenta, fatta di orizzonti più immediati e concreti, un evento con cui però non si può non fare i conti: l’occupazione nazista e la conseguente resistenza partigiana.

Ebbene, questa nuova situazione penetra certo, ma non sconvolge i ritmi, le abitudini, le necessità del mondo contadino che ci viene raccontato: si cerca di sopravvivere rimanendo ancorati alla propria quotidianità, a ciò che si conosce e si sa fare bene, la ricerca della propria sopravvivenza, di se stessi e della propria corposa e autosufficiente realtà, sembra essere il movente fondamentale che muove le azioni, i comportamenti della famiglia. La sopravvivenza è istintiva, fatta di scelte e comportamenti saggi e necessari, non legata ad una reale presa di coscienza: coloro che questa scelta di consapevolezza dovrebbero averla fatta, i partigiani, sono una presenza episodica, e non sempre chiara e rassicurante. Appaiono poco, sembrano un po’ dei fantasmi confusi e indeboliti, piuttosto che l’espressione di un sentimento di appartenenza e di libertà condivisa. Quando gli si dà spazio, le loro divergenze sembrano dettate più da disorganizzazione ed endemica litigiosità, piuttosto che da un confronto tra strategie differenti, le loro azioni appaiono appiattite su una strategia bellica di cui non sono gli artefici (la ritirata dopo l’imboscata, sebbene coerente con la strategia della guerriglia irregolare partigiana è motivata dalla direttiva del comando alleato, cui non si può disattendere), le loro parole, i loro comportamenti verso la popolazione ne tradiscono le difficoltà, l’incapacità di spiegare fino in fondo le loro ragioni, che dovrebbero essere quelle di tutti ed invece non riescono ad esserlo fino in fondo (come accade per esempio quando vanno a rifornirsi di cibo, promettendo di risarcire tutto alla fine della guerra, e devono confrontarsi con l’esasperazione dei contadini: “Prima vengono i tedeschi a portarci via tutto, ora voi…”), perché l’adesione alla causa, l’appoggio da parte della popolazione, pur presente, non sono per questa valori assoluti, ma si mescolano alla necessità primaria di portare avanti la quotidianità:  la dimensione generale e quella individuale, personale, non facilmente riescono a sintetizzarsi.    Ed è proprio qui, nella rappresentazione del confronto tra questi due universi, la guerriglia e la quotidianità, che il film sembra proporre qualcosa, condivisibile o meno, di significativo: cosa ne pensa, come reagisce la comunità contadina, su cui è concentrato lo sguardo del regista, alla violenza, allo sconquasso che bussa, loro malgrado, alla porta di quella che, fino a quel momento, è stata una delle tante periferie del mondo? Proprio il punto di vista narrativo, scelto dall’autore per raccontare la vicenda, può diventare centrale per provare a rispondere a questo interrogativo: lo sguardo infantile, qui quello sensibile ed intelligente di una bambina muta, protagonista dell’intera vicenda, non è, come spesso accade, un meccanismo straniante, un modo per costruire una voluta distanza (pensiamo ad esempio al Pin de Il Sentiero dei nidi di ragno) o uno strumento catartico (attraverso la purezza e l’ingenuità): il punto di vista della bimba Martina, espresso chiaramente nelle pagine di un suo tema che l’insegnante legge preoccupata alla madre (i tedeschi sembrano umani, anche se non sanno parlare, e non si capisce perché non rimangono a casa dalle loro famiglie, ne avranno anche loro! I ribelli vestono e parlano come noi, e perciò sono “i nostri”… Esistono alcuni che si chiamano “alleati”, ma da queste parti non si sono mai visti), potrebbe, nel suo grado semplificato di coscienza politica, rappresentare quello di tutta la comunità che ci viene raccontata. Proprio per quella non pacificata osmosi tra generale e particolare, e proprio perché quel generale non è rassicurante, sicuro, in grado di coinvolgere come dovrebbe, il film più che narrare la guerra vista da una bambina, narra la guerra vista da un mondo ba
mbino in quanto non pienamente consapevole e distante dalla grande storia (si pensi ad esempio a come, non diversamente dalla disponibilità ingenua dei bambini infatti, fino a che la brutalità non si fa manifesta, la gente del paese ha un comportamento non così differenziato  verso gli uomini in divisa, a sottolineare che la divisione “nemici” / “nostri”, può venire spesso sostituita dall’impressione che in ogni caso si tratti di “uomini”, come quando, dopo aver curato il partigiano ferito, i paesani dividono il frugale pasto con alcuni gentili soldati tedeschi).

La stessa difficoltà nel districarsi all’interno di quello che succede, ci viene rappresentata in maniera bruciante nel momento in cui Martina si confronta smarrita con la brutalità della violenza, ancor più devastante perché è violenza dei “nostri” essendo testimone della fucilazione estemporanea di un tedesco ad opera dei partigiani (e nel suo sguardo potrebbero forse trapelare le parole conclusive di La casa in collina, in cui il protagonista, che non ha avuto la forza di unirsi alla guerriglia, di partecipare a nessuna azione organizzata, di fronte alla guerra che dilaga intorno a lui e al suo mondo, riflette che ogni morto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione. Ecco: proprio la ragione di quella violenza, quella per cui alla fine “si può scavalcare un morto”, riuscendo ad accettare e a superare l’azione appena fatta, perché se ne comprende la necessità, ecco proprio questa sembra vacillare, è fioca e debole nella rappresentazione del film). Che poi la mobilitazione della popolazione debba giocarsi su un piano concreto, immediato, legato all’invasione e alla difesa della propria terra, del proprio podere, senza che questo debba tradursi in un disegno più complessivo, sembra averlo in parte chiaro la stessa banda organizzata del comandante Lupo che non vuol saperne di politica, e i cui membri vengono chiamati dai paesani significativamente ribelli, mai partigiani, a ribadire un’opposizione vista e vissuta in primo luogo come rivolta spontanea, come risposta immediata, istintiva all’occupazione subita.

Questo sotterraneo e non lineare tratto di confine tra il mondo interno, la piccola comunità, e il fuori, la guerra devastante tra eserciti contrapposti, i dubbi e le difficoltà che questo contatto mette in campo, sembra approfondirsi ancora di più quando si consuma l’eccidio vero e proprio: certo, in questo caso l’uguaglianza di cui si parlava prima, la condivisa umanità tra tedeschi e partigiani viene messa in discussione, in questa occasione i soldati della Wehrmacht sono molto più simili al ritratto che tradizionalmente ne viene fatto, spietati dispensatori di violenza gratuita, praticata in maniera cieca e assurdamente infantile (la possibilità, nel bel mezzo dello sfogo omicida, di poter desiderare di salvare qualcuno tra quelli che si stanno annientando poiché “somiglia a mia moglie”). Ma dall’altra parte… dove sono i partigiani? Il montaggio delle sequenze, la  grande attenzione con cui viene rappresentato lo sterminio della popolazione della valle, con un punto di vista di nuovo tutto interno al gruppo di abitanti vittima della vendetta, di contro all’assenza di immagini che ci raccontino che cosa, in quegli stessi momenti, la guerriglia antinazista poco prima vittoriosa stia facendo e provando, insinua, implicitamente, mille domande sul ruolo di questa. La forza brutale della reazione tedesca, di fronte all’azione antinazista (mostrata significativamente da lontano, per campi lunghi e medi, attraverso brevi sequenze, e che si risolve alla fine in una ritirata, ma non prima di aver osservato appunto da lontano, con i binocoli, ciò che sta intanto avvenendo dall’altra parte della montagna), la quasi assenza dei partigiani sulla scena e la loro repentina fuga sembra strutturata proprio per indurre qualche pesante e difficile interrogativo (c’era un’esigenza reale  di quella liberazione, visto il duro prezzo che comporta di fronte alla feroce reazione degli occupanti?). Non a caso il film è dedicato a tutte “le vittime innocenti di guerre che non hanno voluto”, non, per dire, “a tutti coloro che hanno combattuto contro l’oppressione”: la vera e interessante, per quanto dolorosa e faticosa, proposta del film sembra risiedere proprio nella possibilità di rappresentare un momento importantissimo della guerra di occupazione in Italia, senza riempirla di tensione politica, quella cui almeno la più significativa letteratura della resistenza faceva riferimento senza cadere in facili celebrazioni.  La brigata del capitano Kim de Il sentiero dei nidi di ragno è anticelebrativa per definizione, al suo interno arrancano personaggi marginali, arrivati in montagna attraverso le strade più diverse e spesso non nobili. Eppure, nella loro vicenda, Calvino fa trapelare continuamente l’istanza di riscatto che, pure confusamente, li muove, li sottende; così come negli incontri di Johnny, il partigiano di Fenoglio la cui vicenda nella guerra di resistenza è prima una ricerca esistenziale che politica, la varia umanità rappresentata si trova in mezzo a qualcosa che, anche se in maniera confusa e contradditoria, spinge quasi per forza verso una visione complessiva di ciò che si muove. L’idea che quando la storia è esplosa nella nostra quotidianità, tutti in qualche modo vi abbiamo fatto i conti in maniera non individuale, abbiamo scoperto una dimensione collettiva ed un livello ulteriore di coscienza (esemplare a questo proposito è la vicenda di Alberto Sordi in Tutti a casa), che ci fosse un’organizzazione diffusa in grado di raccogliere e dare slancio alle esigenze materiali della popolazione assediata, questa idea viene nel film fortemente ridimensionata.

In questo senso il lavoro di Diritti, nella ricostruzione storica di quel passato, sembra in realtà essere profondamente moderno (come ogni espressione artistica del resto); sembra portarsi dietro la difficoltà che oggi scontiamo di immaginare una società pervasa di partecipazione, attraversata da trasformazioni che la aprono all’esterno, piuttosto che farla ripiegare o rimanere dentro se stessa (come avviene un po’ alla famiglia rappresentata, che rimane tenacemente accogliente, dignitosamente viva, ma sempre all’interno dei suoi equilibri, nel perimetro delle sue certezze). Ed in questo rendere conto di un punto di vista meno esaltante, più ridotto e precario, fortemente concreto, più istintivamente umano, (più saldamente “locale”), sta probabilmente anche la sua forza, la sua capacità di arrivare, di parlarci oggi.

Così, usciti dal cinema, il film induce molte domande, spinge a chiederci, a voler comprendere meglio che cosa quel momento ha significato in termini di partecipazione e di costruzione di una comunità condivisa, in che modo può essere portata avanti una lettura progressiva di quel periodo. E tornando al discorso iniziale lo stupore per l’argomento del film si è trasformato in conferma, in consapevolezza che, il cinema, come nient’altro del resto, non sfugge alla realtà: questa è, nel bene e nel male, la r
esistenza che i nostri tempi sanno immaginare.

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4 commenti su “L’uomo che verrà all’Aniene Film Festival

  1. Complimenti per il pezzo che nonostante la lunghezza e qualche parentesi di troppo ho trovato persino lirico e coerente. Credo che il punto di vista delle vittime (le vittime sono sempre involontarie?) sia un privilegio non tanto della modernità quanto della distanza (in questo caso temporale). E che forse nella frase con cui chiudi il pezzo la parola realtà – almeno come la intendi te – debba essere cambiata con la parola (meno nobile, capisco) “attualità”. ciao

  2. Bella recensione. Complimenti. Il film è bellissimo, non sono sicuro di essere tanto d’accordo sulla conclusione; in estrema sintesi secondo me l’occupazione e la resistenza sono essenzialmente le migliori occasioni per indagare quel mondo contadino in quel particolare contesto. Sono le distorsioni estreme causate dagli eventi ciechi feroci e terribili a rivelare le capacità di reazione corale e individuale di quel mondo. Poi mi piacerebbe evidenziare che l’uso della lingua originale, come già ne “il vento fa il suo giro”, film forse ancora più bello, porta a focalizzare tutta l’attenzione sugli echi sussurrati del mondo interiore più che sulla lettura storiografica.

  3. Non credo che il punto di vista delle vittime debba essere necessariamente un “privilegio” della distanza temporale dagli eventi, o si sia reso possibile solo in virtù di tale distanza. Già Pavese ne “La casa in collina” (citato di passaggio nella recensione) nell’immediato dopoguerra, mette in bocca ad un padre contadino discorsi che avrebbe, verosimilmente, potuto fare un personaggio del film di Diritti. In tal senso, uno sguardo terzo (sia pure problematico e non immune da ambiguità), estraneo a qualunque celebrazione trionfalistica della resistenza, è stato possibile fin da subito, anche in ambienti ad essa non ostili. Ciò che nel film è davvero sintomatico dello spirito dei tempi (o dell’“attualità” come sottolinea il puntuale lettore)è forse una sorta di disillusione,lo sguardo retrospettivo di chi probabilmente non considera più la Resistenza un valore fondante. E ciò, se non in senso assoluto, quantomeno nella misura in cui si possa giudicare che da quell’esperienza di condivisione civile, politica e militare, non sia rimasta traccia durevole nell’Italia a venire. Che, insomma, la Resistenza non sia stata davvero quel fulgido inizio d’una storia tutta nuova, così come, in quegli anni feroci e concitati, sperarono coloro che la vissero come un’esperienza esistenziale e politica autentica.

  4. Ringrazio le osservazioni, interessanti e puntuali di chi è intervenuto: mi sembrano interessanti e centrali sia il tema della distanza, sia quello dell’esigenza di rappresentazione di un mondo contadino. Quello che nella recensione, anche riguardo a questi argomenti (il secondo soprattutto presente e sviluppato)si voleva sottolineare era la rilevanza storica che acquisisce oggi concentrare l’osservazione sul mondo contadino vittima della guerra d’occupazione, piuttosto che attivo protagonista di questo conflitto
    (è partecipe con una sua propria modalità, come si cerca di osservare nel testo, la sua adesione è all’interno di un sistema che rimane comunque separato da quello, debole e sfocato, della guerriglia). Quindi, per come, almeno secondo chi ha scritto, sono rappresentate le varie realtà nel film (mondo contadino, tedeschi, partigiani…) si racconta il punto di vista delle vittime non solo perché oggi, grazie alla distanza, è possibile farlo, quanto perché, a conti fatti, è sembrato l’unico dotato di forza ed autenticità (e, di nuovo, chi scrive ha letto in quella compattezza, in quella ciclicità di gesti e atteggiamenti, l’attaccamento totale ad un mondo e insieme la non comunicazione con ragioni che non siano la salvaguardia di quello stesso universo, ragioni che nel film nessuno, neanche chi dovrebbe, sembra in grado di proporre in maniera credibile). La distanza quindi entrerebbe in gioco come “spirito dei tempi”, che proietta anche in questa rappresentazione una fiducia tutta ridimensionata verso un approccio politico, organizzativo, militante di contro a un interesse privilegiato verso una storia materiale portatrice, molto più dell’altra, di una sua connaturata epicità. In questo senso è come se non si trattasse soltanto di fare spazio alle vittime, ma di farlo ridimensionandone fortemente un altro (la guerriglia organizzata, lo scontro politico-militare). E gli argomenti, le riflessioni, la modalità con cui ciò viene fatto e mostrato(e di cui ho tentato di rendere conto), mi sono sembrati profondamente radicati in una certa contemporanea sensibilità.

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