I soldati giapponesi impegnati nella battaglia suicida di Iwo Jima (1945, seconda guerra mondiale) a poco più della metà del film hanno un sussulto, un moto di ribellione che li spinge a ripensare il senso delle proprie azioni, ridotte oramai a una mera esecuzione di ordini assurdi. Ecco che in questo momento decisivo, in cui singoli uomini, e in modi differenti, mettono in discussione la cieca obbedienza alla ragion di Stato, all’ottundente concetto dell’”onore”, cercando umanamente una fuga alla morte onorevolmente certa, ecco che dall’epicentro del potere, i vertici giapponesi lontani dall’isola di Iwo Jima, viene trasmessa via radio ai soldati una canzone patriottica cantata da decine di bambini forniti di voci angeliche: salvateci, solo voi potete, dateci la possibilità di vivere. Questo in breve il contenuto del canto retorico. Questo il mezzo di persuasione usato nei confronti dei soldati sempre più disperati per continuare a tenerli sotto il giogo del potere. Ascoltare i padri per dare un futuro ai figli. Amen. Come in Quella sporca dozzina (R. Aldrich) rovesciata, si potrebbe azzardare. Se là era proprio l’impresa estrema a ridare dignità e riscatto a un gruppo di uomini che fino ad allora avevano più che altro sopravvissuto a loro stessi, nel film di Eastwood dei militari, addestrati e consapevoli del proprio ruolo, trovano il senso del proprio essere uomini nella ribellione ad un ordine che si sente e crede sbagliato. Quel che conta, in entrambi i film, è quindi la presa di coscienza individuale. Lo scarto che il singolo può porre in essere all’interno di un sistema che di fatto lo “usa” fino alle estreme conseguenze, se il caso lo richiede. Un sistema che togliendo la responsabilità della scelta annulla le personalità. Una declinazione dell’onore che, in definitiva, cancella la dignità. E’ utile ricordare come il concetto di onore, in Giappone, abbia perso nel tempo i suoi connotati legati tanto al rispetto delle regole quanto all’attenzione alla giustizia, alla lealtà, alla pietà, per diventare sempre più un espediente con cui motivare i militari, gli uomini, al rispetto assoluto dell’autorità dell’imperatore, sì da costituire infine il mattone centrale su cui poter poggiare il nazionalismo (la brutalità e il disprezzo adoperati dai giapponesi, durante la seconda guerra mondiale, nei confronti dei prigionieri americani che si arresero, e all’opposto la morte sacrificale, onorevole, in battaglia dei kamikaze sono lì a testimoniarlo). Tornando al confronto con il film di Aldrich, si può ben dire che in quest’ultimo è il restare nell’impresa, lo scegliere di restare dopo esser scappati tutta la vita, che dà il senso dell’essere uomo; in quello di Eastwood è il non eseguire gli ordini che si credono sbagliati, il fuggire dopo esser troppo restati in qualche modo (il kamikaze che non si fa esplodere; il soldato che fugge; quello che rifiuta di porre in essere il suicidio d’onore frutto non di una libera scelta quanto di un ordine; il generale che abbandona a poco a poco i toni trionfanti ed esaltati dell’inizio a favore di una presa di coscienza dolente e, questa sì, coraggiosa  – bella davvero la mobilità del personaggio, il cambiamento che si produce in lui lungo l’intero film).  L’uomo al centro della Storia, in ogni caso, è qui reso attraverso un b/n livido, suggestivo, che suggerisce la sconfitta e la morte imminente. E’ un fatto significativo, inoltre, che questo film rappresenti l’altra faccia della guerra, quella del nemico (specularmene a Flags of our fathers, primo capitolo della battaglia di Iwo Jima vista dagli occhi degli americani, nella quale i soldati vengono soggiogati anch’essi dalla “ragione di stato”,  attraverso la gloria della “bandiera”). Nemico che in fondo ci somiglia, e che prova sentimenti simili ai nostri, siano essi di solidarietà piuttosto che di cinismo o di stupidità pericolosa (l’uccisione per futili motivi del soldato giapponese fuggito e datosi al nemico). Pregnante e commovente è quindi il ritrovamento delle lettere che danno il titolo alla pellicola, dalle quali escono fuori tutte le speranze, la fragilità, la profondità e l’unicità –l’avere ognuno una propria storia- che accomuna i soldati. Una scelta quella di mostrare il lato intimo della guerra (bandiere contro lettere: come dire lo spettacolo contro l’elegia, l’esibizione contro il ritrovamento, l’apparenza contro l’essere) nel quale lasciare spazio ai ricordi, alle paure, alle emozioni e ai piccoli slittamenti, in una partitura corale che si pone dalle parti de La sottile linea rossa di Malick, per intenderci, pur con i dovuti distinguo. La duplicazione del punto di vista è quindi, e ugualmente, una riflessione che punta lo sguardo sugli uomini, piuttosto che sulla Storia. E questo è in qualche modo il pregio e il limite del film di Eastwood nonché di tanti registi americani (si pensi al pur bellissimo Apocalypse now di Coppola in cui il Vietnam è rappresentato come un incubo, sì che le responsabilità storiche, le “colpe”, sono di fatto annullate) che si concentrano sugli attori più che sui motivi della Storia, sulle ragioni della guerra in questo caso. Fatto non da poco. Chissà che avrebbe detto Gillo Pontecorvo a proposito del film di Eastwood, chissà.     

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