Di Giovannella Rendi /  Non sarà forse un caso che a risollevare le sorti di una delle peggiori stagioni distributive cinematografiche italiane (sarà una questione nazionale o no? Viene il sospetto che negli altri paesi europei la distribuzione abbia delle leggi, una logica, un coraggio) siano stati due film di animazione:  La mia vita da zucchina di Claude Barras e La tartaruga rossa di Michaël Dudok de Wit, entrambi presentati al Festival di Cannes 2016, anche se in sezioni differenti, entrambi sconfitti nella corsa all’Oscar 2017 cui erano candidati.

Che il cinema d’animazione non sia un prodotto per bambini lo si sa già da tempo, basti pensare alla giarrettiera di Betty Boop e all’utilizzo pubblicitario, propagandistico, manipolatorio delle immagini in movimento nei vari periodi della sua storia: che si trattasse di disegni animati, stop motion o qualsiasi altra geniale invenzione, l’intenzione era soprattutto quella di fare un prodotto per l’infanzia che come tutti i prodotti per l’infanzia fatti bene, piacesse anche ai “grandi” (e poi ci sono anche i prodotti per adulti, come Valzer con Bashir,  una vera e propria graphic novel animata o Anomalisa, la cui ossessiva perfezione formale non basta a risollevare una sceneggiatura cervellotica e solipsistica, ma qui il discorso rischia di andare troppo lontano).

Nel vedere i film di Barras e di Dudok de Wit con occhio (almeno anagraficamente) adulto, viene da chiedersi se siano o no adatti ai bambini, in particolare la storia di Zucchina che incidentalmente uccide sua madre e finisce in una casa famiglia per bambini vittime di genitori tossici, sbandati, che se li dimenticano, o li molestano sessualmente (sì, c’ anche questo, anche se suggerito con estrema delicatezza). E per due che vengono adottati da una brava persona,  tutti gli altri restano lì a sperare e a temere che i loro papà e le loro mamme vengano a riprenderseli.

Meno, o meglio diversamente inquietante, è il caso de La tartaruga rossa, di cui la definizione forse più appropriata è trattato filosofico sull’esistenza umana, che  parte come Robinson Crusoe, attraversa il mito di Sisifo e approda dalle parti della rivisitazione del romanzo di Dafoe operata da Michel Tournier con Venerdì o il limbo del Pacifico.  Ma siccome siamo ormai nel nuovo millennio, alla crisi del colonialismo britannico si sostituisce la favola ecologica, e questa volta non è Venerdì a dimostrare la superiorità culturale sull’uomo bianco ma un animale-donna a realizzare la parità e complementarità con un uomo.

Parabola della vita dell’uomo, il film si apre con un individuo senza nome né identità che travolto da spettacolari onde dell’oceano in una minuscola barchetta a remi, naufraga su un’isoletta deserta, i cui elementi fondanti sono il mare, la sabbia, le rocce, la foresta, strati assoluti ognuno con i suoi rumori, i suoi colori, i suoi pericoli e le sue risorse. Mentre i diversi elementi del paesaggio sono realizzati con  una straordinaria accuratezza grafica, la figura umana è fortemente stilizzata ma non per questo meno poetica: pochi tratti indicano occhi naso e bocca ma si muovono con straordinaria espressività, mentre  la barba cresce, i capelli si allungano, i vestiti si logorano.

Novello Robinson, ma teneramente umano, l’uomo non ha altro desiderio che andarsene, e come Sisifo costruisce in continuazione una zattera che una forza misteriosa gli distrugge non appena si allontana dall’isola. Non ci meraviglieremmo di vedergli spuntare davanti improvvisamente un bambino che gli chiede di disegnargli una pecora.  Al suo posto appare invece una enorme tartaruga marina, dentro cui si nasconde una donna, la cui presenza trasforma l’isola da luogo ostile a giardino dell’Eden. La natura è natura, comunque, un’entità potente ma soprattutto moralmente neutra, e così come istiga alla creazione della vita, non esita a distruggerla quando l’uomo meno se l’aspetta.

Tutto e niente succede sull’isola, se non le tappe fondamentali della vita dell’uomo: nascita, procreazione, sopravvivenza, vecchiaia, morte, scandite nel loro ritmo naturale che alterna gioia e dolore, ricerca del cibo a invenzioni tecniche, il tutto senza che i personaggi (alla fine gli “umani” sono tre) pronuncino niente altro che qualche suono inarticolato ogni tanto, affidando l’espressione di molteplici sentimenti al linguaggio del viso, del corpo, al comportamento. Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera si susseguono ma senza il delitto né il castigo di Kim Ki Duk, tuttavia traspare continuamente in filigrana l’elemento orientale pieno di grazia e di rispetto per gli animali (in particolare le minuscole e divertentissime coreografie  di alcuni granchietti che fanno da contrappunto agli avvenimenti principali) a suggerirci che tra i produttori del progetto c’è lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki , uno di quei pochi grandi che si ricorda di essere stato un bambino.

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