Il film di Fincher porta sullo schermo la ricetta della felicità di Mark Twain: la vita sarebbe infinitamente più felice se potessimo nascere già ottantenni e gradualmente diventare diciottenni. Sarebbe a dire: quando si è giovani si hanno le capacità, ma non i mezzi e l’esperienza per vivere appieno la nostra condizione, e solo in vecchiaia, lontano dal lavoro, ci è dato di poter esprimere noi stessi, quando il tempo biologico è ormai scaduto.

Il curioso caso di Benjamin Button è una fiaba metafisica fondata sul paradosso del tempo, la storia di una vita vissuta al contrario, un bimbo nato vecchio che a ritroso ripercorrre le tappe di una maturazione fisica distonica rispetto al resto del mondo. Il piccolo Benjamin nasce a New Orleans nella notte in cui si festeggia la vittoria degli Stati Uniti nella Grande Guerra del 1918 e attraverserà da quel momento ottant’anni di storia americana: sarà marinaio su un rimorchiatore irlandese, sfiorerà la Seconda Guerra Mondiale, piombando dritto negli anni Sessanta dei Beatles alla tv, gli anni della fioritura di un’America giovane e piena di sogni, per poi intraprendere la strada rovinosa del declino di una regressione all’infanzia negli anni Ottanta.

Facile vedere nella monumentalità dell’opera una metafora del Novecento americano, lo sceneggiatore è quell’Erich Roth di Forrest Gump, e Benjamin Button è un altro antieroe che attraversa il secolo a stelle e strisce e può guardarlo con il distacco della sua “diversità”, è depositario del sogno americano perché, come per Forrest Gump, “nessuno può dirgli cosa il destino ha in serbo per lui”.

Ad intervalli nella vita di Benjamin entra Cate Blanchett, la donna che non vedrà, se non per un breve periodo, il suo tempo biologico allineato a quello di Benjamin. Un’altra parabola delle relazioni tra i sessi nel Terzo Millennio: lui sempre più Peter Pan, lei ossessionata dalla giovinezza. Ma Benjamin Button è anche e soprattutto il primo piano ingigantito di Brad Pitt nella locandina, per tutto il film assistiamo alle metaformosi digitali del corpo del protagonista in attesa che diventi Brad Pitt, quello tutto Rayban e muscoli scattanti che conosciamo, che smetta i panni così poco credibili del vecchio o del ragazzino sexy dei tempi di Thelma e Louise.

Si ha l’impressione che sotto la superficie della storia d’amore di una coppia asincrona non ci sia una riflessione approfondita sul tempo, che questa, seppure esistesse, si ridurrebbe a quell’immagine che apre e chiude il film, l’orologio a muro che scorre all’indietro. Siamo lontani dai territori filosofico-esistenzialisti dell’ultimo capolavoro di Coppola, Un’altra giovinezza, a cui, pure, questo film rimanda. Peccato per Fincher, che ha rinunciato al suo sguardo ambiguo per confezionare un prodotto da (meritato) Oscar.

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