Go get some rosemary di Josh e Benny Safdie, ritratto esuberante, intenso e pieno di vita di un padre divorziato alle prese con i suoi due figli è, a mio avviso, uno dei film migliori presentati quest’anno alla Quinzaine des réalisateurs.

I due giovani registi newyorkesi Josh and Benny Safdie, 25 e 23 anni, sono montati sul palcoscenico della Quinzaine l’uno sulle spalle dell’altro per dimostrare la loro unità creativa in un esercizio di equilibrio che ha suscitato lo stupore ed una leggera preoccupazione nel pubblico. Questo atteggiamento dà bene l’idea dell’universo originale e anticonformista di questi due ragazzi che, già da qualche tempo, fanno parlare di sé nei circuiti del cinema indipendente americano.

I due fratelli hanno fondato insieme ad un gruppo di amici la Red Bucket Films, una società di produzione, dove gli uni partecipano ai progetti degli altri aiutandosi a vicenda, ma anche discutendo e criticandosi reciprocamente. Il primo lungometraggio di Josh, il fratello maggiore, The pleasure of being robbed è uscito in Francia giusto qualche settimana prima di Cannes.

Film dagli echi bressoniani, il suo omaggio a Pickpocket è evidente, The pleasure of bing robbed segue il girovagare di una giovane donna, Eleonore, che si appropria delle borse degli altri non tanto per rubarne il contenuto, ma più che altro per scoprire gli oggetti che contengono e gettare un’occhiata furtiva nella vita e nell’intimità degli altri. Interpretato da un’attrice non professionista, la fotografa Eléonore Hendricks,  il personaggio di Eleonore, sovversivo e tenero, apatico e pieno di fantasia, solitario e bisognoso d’affetto sa sedurre lo spettatore nel suo mondo singolare. Le sue peregrinazioni, senza una vera meta o scopo, sono punteggiate da incontri casuali come quello con un suo vecchio amico, interpretato da Josh, con cui decide di imparare a guidare su un’auto “prestata” accompagnandolo in un lungo viaggio notturno, da New York a Boston…

The pleasure of being robbed è un film dal tono sommesso e garbato, dal ritmo placido, un’elegia dedicata a tutti quelli che vivono un po’ al margine di una società retta dal conformismo. In Go get some rosemary ritroviamo una gran parte della banda che aveva partecipato al film di Josh a cominciare da Eléonore Hendricks nel ruolo di Léni. A loro si aggiungono i due piccoli protagonisti del film Sage e Frey Ranaldo, figli dell’artista Leah Singer, alla quale viene affidato il ruolo della madre, e il regista Ronald Bronstein, alla sua prima prova qui come attore nel ruolo del padre, nonché Abel Ferrara che recita un piccola parte memorabile.

Lenny, un uomo sulla trentina, vive ormai separato dalla moglie e dai suoi due bimbi Sage e Frey, che ha il diritto di tenere con sé solo durante due settimane all’anno. Il film descrive questo periodo di tutela in cui Lenny, abituato a vivere da bohémien, circondato da una fauna di amici stravaganti e da una compagna egocentrica, si trova improvvisamente alle prese con due bambini senza ben sapere come fare. Gli episodi strabilianti si accumulano ma al tono gioioso ed entusiasta dell’inizio si sostituisce pian piano una grande tristezza intorno alla figura di questo padre affettuoso e immaturo che si sforza di fare del suo meglio, ma finisce spesso per coinvolgere i suoi bimbi in un’insieme di situazioni inadeguate se non addirittura pericolose.

Go get some rosemary ha un’origine autobiografica ed è nato, a detta dei due registi, dalla voglia che sentivano di parlare della loro infanzia, ma sopratutto dalla necessità che provavano di confrontarsi con una figura paterna fuori dal comune e con i loro sentimenti ambivalenti nei suoi confronti: un misto di attaccamento e di delusione, di affetto e di sofferenza, di ammirazione e di disinganno, di entusiasmo e di frustrazione.

 Go get some rosemary è una piccola gemma cinematografica tanto per la sceneggiatura quanto per il suo linguaggio formale. Il film è stato girato in 35 millimetri spesso con una cinepresa portata a mano che si muove all’unisono con i personaggi e vibra sulle onde della loro inesauribile energia. La fotografia, dove emergono più volte dei piani volutamente mossi o sfocati, crea un’immagine mobile e fluida completamente appropriata alla storia del film ed ai suoi eroi. Nella prossimità della cinepresa ai corpi e ai volti si percepisce qualcosa di prossimo al pathos che animava le inquadrature di Cassavetes, solo che qui l’obiettivo lascia meno spazio al sarcasmo e all’autoderisione sondando l’anima dei personaggi con compassione ed indulgenza. Ritroviamo in questo film una vitalità, un’autenticità, una vena creativa sorprendente e una notevole maestria nella direzione d’attori.

Ben quaranta ore di pellicola sono state girate un po’ alla maniera di un documentario, seguendo a lungo i giochi dei bambini, le loro conversazioni con Lenny, i momenti passati a scuola, sulle tracce di una prima sceneggiatura che si è venuta man mano modificando durante le riprese. I due bimbi sono splendidamente naturali nel loro stupore continuo, nella loro gioia così come pure nella tristezza, nella mestizia e nella fatica che li assale durante l’ultima sequenza del film. Ronald Bronstein riesce a comporre in maniera magistrale una figura di padre complessa e travagliata: infantile e giocosa, stressata e delusa, allegra e irascibile ma infinitamente umana. A lui va certamente molto del merito di questo film.

Dominato dall’iperattività ingenua, spesso incosciente del suo protagonista e dall’irruenza dei due bimbi, coinvolti in un vortice di eccitazione costante, il ritmo di Go get some rosemary è teso come una corda di violino. Guardando il film ci si augura a volte che tutto questo correre, saltare, vociferare, giocare, muoversi in tutti i sensi cessi per un attimo, ma quando, inaspettatamente, questo nostro desiderio segreto si materializza, l’immobilità e il silenzio che invadono lo schermo pesano altrettanto, se non più.

Lenny, non avendo trovato nessuno per badare ai suoi figli durante una notte in cui deve andare a lavorare, pensa bene di dare loro una piccola dose del suo sonnifero. Sage e Frey cadono in una specie di coma e noi ci troviamo a spiare con angoscia i corpi inerti dei due bimbi, pregando che diano presto un segno di vita…

Il film è un esplosione continua, un vero fuoco d’artificio di personaggi originali, di immagini sorprendenti, di situazioni impensabili che culmina in un crescendo drammatico. Magnifica è soprattutto la parte finale che descrive gli ultimi giorni del soggiorno dei piccoli con Lenny: la loro visita ad un museo di storia naturale con la riproduzione gigante di una zanzara che tornerà di notte a popolare gli incubi di Lenny ed infine la decisione disperata di quest’uomo che non può più tollerare l’idea di vivere senza i suoi figli, di ricorrere al sequestro.

Da questa sequenza nasce anche il titolo del film. Lenny manda i due bimbi a fare le spese: “go get some ….rosmary” cioè “vai a comprare del rosmarino” per potere organizzare in quattro e quattr’otto un trasloco folle. Fra tutti i suoi affari l’uomo deciderà di portarsi dietro solo l’enorme frigorifero r
iempito di giocattoli: un finale straziante, ma splendido.

Go get some rosemary è un’enorme dichiarazione d’amore di Josh e Benny a quest’uomo immaturo, ma in fondo fragile, disorientato e profondamente affettuoso che è loro padre, un inno all’infanzia e al tempo perduto. Il film si chiude con una dedica dei registi: “For our father, for fun as a resposability, for the middel perspective, a lost past, lights on during day time, lost love but still something there, excuses, the fridge full of games, small appartements and our mother”.

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