Arriva nelle sale una delle chicche dell’ultimo festival di Venezia e in particolare di una delle sezioni collaterali più vitali e ricche di sorprese, come sono le Giornate degli autori (di cui Machan – La vera storia di una flasa squadra  – è stato il vincitore). Già al Lido si diffondevano tra i festivalieri giudizi ultrapositivi sul film (accolto benissimo da pubblico e critica) e saliva la voglia di vederlo appena tornata a casa (stavo sì al Lido, ma per motivi di lavoro riesco a vedere sempre pochissimi film). Uscito questo weekend mi precipito a vederlo in una sala di un quartiere centrale di Roma il cui esterno è affollato di venditori ambulanti, di scarpe, borse, magliette… Visi silenziosi di dignitosi lavoratori. Si spengono le luci e quei volti eccoli lì sullo schermo. Sono Stanley (il venditore di scarpe là fuori ne sembra il fratello gemello), Manoj, Suresh, Vijith, Piyal, Ruan, Naseem.

Già dalla prima scena è chiaro il tono del film. Siamo nella periferia di una grande città (scopriamo poi essere Colombo in Sri Lanka), è notte, due poliziotti stanno facendo la ronda e svegliano una donna che sta dormendo per terra, tra i cartoni,  con la sua bambina perché è illegale. I due poliziotti parlano intanto della loro famiglia e delle loro difficoltà quotidiane. Un cane fa la pipì su un piede. È quello di un giovane che sta attaccando con un amico dei manifesti di propaganda politica. L’amico gli dice di non lavarsi perché “magari porta bene”, perché magari è il loro portafortuna per l’indomani, quando proveranno per l’ennesima volta ad ottenere il visto per la Germania. Così non sarà. Non sono abbastanza perseguitati per ottenere il permesso da rifugiati politici e non hanno un lavoro già predisposto che li attende. Ma i soldi per la richiesta non sono restituiti dal ricco occidente…

La forza di Machan è quella di raccontare una realtà attuale, drammatica con ironia e con il sorriso: non è difficile pensare all’Italia poverissima del nostro dopoguerra raccontata in film come I soliti ignoti, l’Italia delle piccole truffe, dell’arte d’arrangiarsi raccontata sì con realismo, ma anche con le chiavi della commedia.

Uberto Pasolini (nonostante il cognome non ha parentela con il famoso Pierpaolo, ma piuttosto con Visconti), qui alla sua prima prova di regia – ma già produttore, tra gli altri di Full Monthy –  vince appieno la scommessa. Si ride, ci si commuove, ci si affeziona ai personaggi. Pasolini, di origini italiane ma inglese d’adozione, riesce a calarsi nella realtà cingalese sì da raccontarla del di dentro e non con l’occhio esterno di occidentale. A prova di esserci riuscito, il film uscirà a Natale anche nello Skri Lanka, ma già ora si stanno facendo delle anteprime dove viene accolto con entusiasmo e percepito come proprio. Prima di tutto, pur se sembra una favola (ma spesso la realtà supera la nostra fantasia) Machan  racconta una storia vera, un fatto di cronaca, completamente assurdo, in cui si è imbattuto, innamorandosene, il regista. 23 cingalesi riescono ad arrivare in Germania, facendo perdere poi le proprie tracce, truffando il sistema di leggi che regola l’emigrazione. S’improvvisano giocatori di pallamano, creano la nazionale di pallamano dello Sri Lanka (dove non si sa nemmeno che gioco sia) e facendo carte false vengono invitati per un torneo in Germania.

Pasolini si trasferisce in Sri Lanka per un lungo periodo così da conoscere quella realtà, le persone che ne fanno parte, le loro storie e mettere insieme un incredibile team di lavoro.  Si avvale,infatti, di Ruwanthie de Chickera, autrice teatrale cingalese le cui opere trattano prevalentemente di temi sociali; di Prasanna Vithanage, il maggiore regista contemporaneo dello Sri Lanka, come produttore e di Damayanthi Fonseca, una delle maggiori attrici del paese, per il casting. Il cast, composto prevalentemente da attori alla prima esperienza cinematografica o da non-professionisti, è perfetto.

Machan è un film corale che riesce a dipingere con le giuste pennellate le situazioni  e i caratteri umani più diversi. C’è l’adorabile irresponsabile. Il truffatore. Il gigolò che va con le turiste tedesche, e che  non vuole venire in Italia perché qui le donne picchiano gli uomini. Ci sono le vecchie zie un pò matte che anche senza il tetto sopra la testa (“è meglio – dicono – è più fresco e poi si vedono le stelle e l’albero”) continuano a giocarsi tutto nelle corse dei cavalli (sempre perdenti). C’è la donna che si atteggia perché ha il fratello in Italia che le spedisce elettrodomestici che non può usare (non hanno elettricità in casa) e che si vergogna con i propri familiari emigrati del marito povero. C’è il vecchietto che lavora nelle toilette dei  grandi alberghi e che viene licenziato perché sostituito dalla macchina che fa aria calda per asciugare le mani (ma come dice Manoj “qui abbiamo già tanta aria calda e poi non asciuga nemmeno”). C’è chi vuole emigrare perché non ha mai visto un paese diverso dal suo, chi lo fa per sopravvivere, chi per pagare i debiti: tutti però accomunati dal dover azzerare la propria identità per ripartire da zero. Come dice uno dei personaggi: “nel tuo paese sei comunque qualcuno, fuori sei nessuno (anche perché spesso sei costretto a vivere in clandestinità, sotto falso nome…). Pare, tra l’altro – realtà nella realtà – che un membro del cast sia scomparso dal camerino, ma è stato comunque abbastanza cortese da terminare le riprese prima di svanire nel nulla.

Dopo una prima parte in cui ci si cala – sempre con levità e il sorriso  – nella realtà di Colombo, nella sua barraccopoli il ritmo sale nella parte girata in Germania. Qui l’improbabile squadra di pallamano non riesce a dileguarsi appena sbarcata e si ritrova suo malgrado a giocare un assurdo torneo in cui perderanno 72 a 0, poi 56 a 0 e faranno un goal fortuito, trovando alla fine l’orgoglio di squadra. La scena finale in cui il giovane becchino dopo averci commosso con il suo laconico racconto in cui ricorda di aver seppellito ad uno ad uno tutti i componenti della sua famiglia, si allontana lungo i binari deserti verso un futuro migliore (immagine di chapliniana memoria) è un momento di vero cinema. Machan non è certo un film di sperimentazione, ma dalla narrazione classica.

Nota dolente della mia visione (a parte l’interruzione a metà film per vendita bibite e gelato) il doppiaggio, non perché sia stato fatto male, ma il film è stato girato interamente in cingalese e credo ci guadagni in verità se visto in originale.

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