Civico 0 è un film che andrebbe proiettato in televisione, nelle scuole, in tutti i circoli culturali e artistici possibili, e invece è stato distribuito in pochissime copie che circoleranno a turno a Roma, Napoli, Milano e Torino.

Il film/documentario, che segna il ritorno di Citto Maselli dopo anni dalla sua ultima prova di regia, è tratto dal libro Il nome del barbone di Federico Bonadonna, storie di barboni, storie di degrado, storie di povertà, di extracomunitari ma non solo. La telecamera, con estrema meticolosità e lentezza, ci trascina negli orrori, reali, che quel degrado e quella povertà generano nella nostra società: lavavetri, prostitute, mendicanti, zingari nelle baracche, poveri ansiosi di raccogliere dai cassonetti quelli che per noi sono rifiuti. Civico 0 è l’indirizzo di chi non ha indirizzo, è la casa di chi non ha casa, è l’identificazione di chi non ha identità. La didascalia iniziale ci dice che quelle riprese sono le immagini di una metropoli della società globalizzata contemporanea: è Roma, ma potrebbe essere Parigi, Londra, Berlino, New York. È la metropoli che si crede tecnologica, equa, liberale, ma che si scopre sconfitta, perché sconfitto è chi crede di poter andare avanti e lasciare indietro gli ultimi. Soprattutto se poi scopriamo che gli ultimi non sono così lontano da noi, ma sono molto più vicini, sono in mezzo a noi, potremmo essere proprio noi, ma preferiamo non accorgercene.

È come se avessimo sviluppato una vista selettiva che ci permette di vedere solo ciò che è utile e bello; e mentre scorrono le immagini ci sembra di riconoscere i luoghi, le piazze, le fontane ma abbiamo difficoltà a riconoscere quelle persone e quelle storie. Ma Maselli ci costringe a vedere ciò che non vogliamo vedere prelevandoci forzatamente dalla nostra bella realtà selezionata. A poco a poco, ci ricordiamo della zingara che è salita sul nostro stesso vagone in metropolitana, del rumeno che cerca di lucidare i fari della nostra macchina all’incrocio, della vecchietta che trascina il proprio carretto di stracci. E allora iniziamo a riconoscerli tutti quei volti, li riconosciamo uno ad uno, e non ci appaiono più estranei, e la nostra vista si allarga ad osservare la realtà nella sua totalità.

 Dal magma indistinto della povertà, il regista estrae tre storie, vere, che vengono rivissute da tre attori: Letizia Sedrick, Ornella Muti e Massimo Ranieri. È la storia di Stella, che dall’Etiopia è giunta a piedi fino in Libia, e di lì in Italia, e la telecamera indugia a lungo su quei piedi che hanno camminato nel deserto e hanno impressi i segni della disperazione; è la storia di Nina, che dalla Romania giunge a Roma in cerca di libertà per ritrovarsi invece intrappolata in una casa-prigione; è la storia di Giuliano, fruttarolo al mercato di Campo de’ Fiori, che dopo la morte della madre, perderà casa e lavoro, e inizierà a vagare da un tram all’altro, di notte e di giorno, d’estate e d’inverno, ormai privo della capacità di gustare e ammirare la vita. “Giravo per una città che non riconoscevo” dice Giuliano, la cui storia è forse la più emblematica, perché più delle altre esprime la precarietà dei punti di riferimento nella nostra società e ci fa capire quanto quella disperazione può essere vicina alle nostre “vite normali”.

Lo sguardo del regista è intensamente partecipe, sembra accarezzare con la cinepresa i personaggi, senza mai scadere nel pietismo. L’opera rimane in bilico tra documentario e film; Stella, Nina e Giuliano si alternano a frammenti rubati alla cruda realtà; l’arte rielabora così la realtà e trasforma le vicende di alcuni in storie paradigmatiche e universali. Ci sembra giusto concludere con le parole di Citto Maselli: “Ho voluto suscitare quell’indignazione etico-morale che oggi manca, scagliarmi contro la politica di adeguamento all’esistente attraverso le immagini e il suono”. È arrivata davvero l’ora di indignarsi, per tutti.

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