A volte può succedere che si venga a sapere della morte di un cineasta al quale si è affezionati, per averne seguito gli esordi e la maturazione negli anni che coincidevano con la propria formazione cinefila, in una modalità profondamente coerente con l’idea che ci si è fatti della sua esperienza umana ed artistica. Carlo Mazzacurati, scomparso lo scorso 22 gennaio, se n’è andato con lo stesso pudore e la stessa delicatezza dei piccoli personaggi che hanno popolato il suo cinema, esposti alle intemperie e alla durezza di realtà che spesso hanno avuto i colori precisi, implacabili del grigio e piovoso gennaio appena terminato. Anti-eroi, termine molto abusato ma efficace per identificare un cinema della marginalità e del disagio esistenziale, e che fanno poco eco nell’iperstratificato e saturato mondo del web, dove sono venuto a conoscenza della sua morte – riconoscendo la sua espressione dolce dietro la barba incolta in una foto con accanto uno scarno, essenziale comunicato stampa.

Probabilmente si tratta della necessità di dare una lettura romantica e sentimentale alla dipartita di uno dei pochi registi italiani di cui mi sono reso conto di aver visto un rilevante numero di film scoperti e vissuti proprio nel momento stesso in cui venivano distribuiti in sala e in grado di sviluppare, di conseguenza, una riflessione, un punto di vista, un pensiero  sulla realtà che poi vedevo scorrere davanti ai miei occhi quando uscivo dal cinema. Erano gli anni ’90 ed io ero un adolescente che cominciava a formarsi, a costruire una propria coscienza sociale e politica con fatica e disorientamento, visto che venivamo da un decennio di vuoto, feroce e omologante edonismo: il funerale in pompa magna di tutte le ideologie e le illusioni, incensato da uno  stordente odore di saponetta e iconizzato da una plastificata estetica da spot pubblicitario.

Eppure nella mia pre-adolescenza, a cavallo tra un’epoca e l’altra, c’era stato il fenomeno del grunge e in particolare di un gruppo musicale, i Nirvana, che più di qualsiasi immagine cinematografica, con una potenza viscerale  e archetipica, aveva strappato i festoni e le lucette natalizie a quella celebrazione mortifera e ridato voce, rabbia e passione ai corpi fragili e tremanti degli adolescenti. Ma anche la rabbia, troppo esasperata, si era andata a disintegrare esattamente con il volto e il cervello del personaggio simbolo di quella accanita, scalciante rivoluzione: Kurt Cobain pensò bene di spararsi in testa, ponendo fine, oltre che alla sua vita, ad un immaginario che per un attimo credevamo potesse nutrirsi della più compiaciuta pulsione di morte e della disperata, incontenibile volontà di vivere nonostante tutto… Ecco, nella mia scoperta in particolare del cinema italiano di quegli anni, il cinema di Carlo Mazzacurati entra in scena proprio in questa zona opaca, indefinita, dove c’era un senso di attesa per una nuova rivoluzione, visto che quella che c’era stata prima era finita troppo in fretta e troppo male.

Da questo punto di vista però il cinema di Mazzacurati è stato un viaggio all’indietro, un ritorno all’essenzialità, alla semplicità, a sciogliere le inquietudini e le tensioni nel contatto, nella ricerca dell’intimità, uno spazio che non sono le parole o i grandi moti a definire, ma i piccoli gesti, le sfumature impercettibili, l’essenziale invisibile agli occhi, tanto per restare in tema di citazioni abusate ma pertinenti. In opposizione c’è spesso un tessuto sociale che vuole inglobare, razionalizzare, schematizzare per rendere presentabile e accettabile un’umanità  sempre più abusata e offesa dallo sfruttamento dei sogni e dal consumo dei bisogni.

Mi appariva in questo l’unicità dei personaggi di Mazzacurati nella desolante cinematografia italiana di quel periodo: individui senza contesto e senza origine che compiono  movimenti destinati a non portare nessuna nuova rivoluzione, ma alla ricerca elementare di un ristoro, un approdo temporaneo non consolatorio visto il tocco di amarezza sempre in agguato dietro l’angolo, pronto a buttare acqua gelata sulle belle speranze. Rivedendo recentemente Vesna va veloce, uno dei suoi film insieme più atroci e delicati, colpisce con un preciso affondo nel cuore la scena finale in cui la protagonista, sperduta ragazzina cecoslovacca mascherata da cinica prostituta, fugge dal commissariato di polizia che la vuole rimpatriare  e viene investita da un camion, sotto lo sguardo impotente, bloccato contro il vetro dell’ufficio della questura, di  Antonio, il generoso e silenzioso operaio che per il tutto il tempo del racconto aveva cercato di amarla e di accoglierla. Una fuga che Mazzacurati non fa concludere cinematograficamente con la morte, perché Vesna continua a correre in un epilogo ambiguo e spiazzante: la volontà di vivere nonostante tutto o il consapevole smascheramento dell’illusione dell’immagine cinematografica, ingannevole come il miraggio del benessere economico e sociale venduto ai paesi del confinante Est Europa?

Un cinema che sotto la superficie limpida e acuta del suo sguardo, nascondeva rimandi, suggestioni, come le trame noir in cui coinvolgeva i suoi spaesati personaggi: non mi è mai sembrata casuale la scelta di un certo di tipo attori, tutti accomunati dall’avere un’aspetto ordinario, anonimo, da borghesi ed anche proletari piccoli piccoli, ma con guizzi e scatti di sconcertante, turbante tenerezza. Marco Messeri, il piccolo avvocato coinvolto in un gioco di potere economico, speculazioni edilizie  e estrazioni illecite tra i pozzi minerari del Delta del Pò in Notte italiana, suo lungimirante esordio del 1988 sulla scomessa vinta della rovina di questo paese, come dice Valeria Bruni Tedeschi ne Il capitale umano; Silvio Orlando, il dentista che accoglie in casa una ragazza russa senza storia ed entra nel girone infernale del piccolo sottobosco malavitoso romano in Un’altra vita. Tutti interpreti, come peraltro Antonio Albanese in Vesna, legati ad un’immagine di comici popolari ai quali Mazzacurati chiede di essiccare, ridurre all’osso, contenere al massimo i loro mezzi espressivi, contribuendo a creare un’atmosfera rarefatta e indefinibile.

Colpisce la coincidenza della percezione di luoghi geografici, prevalentemente  la provincia  del brumoso nord est, tutti decentrati o spostati rispetto all’asse principale, con i chiari e gli scuri di caratteri psicologicamente ed emotivamente in cerca di un’identità, proiettati in un altrove, nella corsa senza tempo e senza destinazione di Vesna. La vita, esattamente come l’inquadratura, sembra un contenitore, una cornice dentro la quale passano corpi che hanno tutti i livildi e il peso specifico della realtà, ma che sembrano costantemente incompleti e che sembrano dover andare in fondo a questa voragine, questa mancanza, spesso (auto)distruggendosi, oppure andando molto vicino al precipizio del baratro. L’estate di Davide, uno dei suoi film meno visti uscito al crepuscolo degli anni Novanta, contiene in sé la duplicità di cupezza e luce, come i paesaggi del Polesine veneto in cui è ambientato, tratteggiando secondo una maniera impressionistica, nel senso pittorico del termine, la più toccante e intensa figura di adolescente post Cobain, se vogliamo rimanere nella cornice dell’incipit di questo
articolo, del nostro cinema, sempre anemico e distratto quando si tratta di raccontare le primavere o le estati della vita.

Davide, che fisicamente ricorda un giovane Albanese, Orlando o Messeri, è spinto  dal desiderio, esattamente come i suoi epigoni più adulti e disillusi, ad uscire fuori dalla strada principale (la città, Torino, è sempre lontana) e il desiderio, come in nessun’altra opera di Mazzacurati, si fa carne e fisicità. Il suo innamoramento appassionato per Patrizia, piccola seduttrice di provincia senza speranza e persa nell’eroina, è la fessura attraverso cui passare ed essere espulso dentro la vita, dopo averla spiata da una finestra, più per trepidazione che per voyeurismo.

“Comincia a ingiallirsi il nero del livido non è più così tanto nitido e da oggi il dolore ritorna semplicemente sottocutaneo”. Con questo verso di una canzone di Samuele Bersani, Un periodo pieno di sorprese, potrebbe ben riasumersi il sentimento con cui Davide conclude la sua estate e passa ad un’altra stagione. Ma assumono un senso simbolico e una sfumatura affettiva anche gli autunni e gli inverni di Antonio in Vesna, di Saverio in Un’altra vita, di Otello in Notte italiana. Uomini che, sotto la cenere, hanno ancora fame di qualcosa a cui non basta più uno slogan pubblicitario a dare un nome. Come anche Franco e Loris, coppia di poveracci da postumi di commedia all’italiana ne Il toro. Don Chisciotte e Sancho Panza del minimalismo cinematografico e dell’era post capitalista (anche se qui è l’imponente Abbatantuono a fare Don Chisciotte e lo smilzo Roberto Citran a ricoprire il ruolo di Sancho Panza) che inseguono quel qualcosa in un viaggio a rovescio verso l’Est Europa per infine rendersi conto, se non proprio per acquisire la consapevolezza, che il legame che li unisce può o deve essere sufficiente a riempire lo spazio tra il nulla e l’addio come, viaggiando sul treno delle affinità, il non luogo dal quale viene la Maggie/Hilary Swank di Million Dollor Baby , struggente e umanissimo capolavoro di Clint Eastwood, che con il cinema del buon Mazzacurati ha in comune quest’unico preciso momento estetico e narrativo: filmare le tensione e le vibrazioni che portano gli esseri umani ad abitare la loro esistenza.

E mi fa piacere congedarmi da Carlo Mazzacurati attraverso la citazione di un bellissimo personaggio femminile come Maggie/Million Dollar Baby anche perchè mi consente di collegarmii alle donne del suo cinema, forti in una chiave non ideologica e fragili in una modalità non passiva, con gli occhi ben aperti sul vuoto e i corpi ben pronti a tuffarcisi dentro. A conti fatti, però, più di ogni altra cosa rimangono gli sguardi: quello laconico e pieno di rimpianto di Patrizia a Davide, quello distante e perduto di Vesna nell’attesa del suo finale, e, sopra tutti, almeno nella mia personale classifica, quel misto di malinconia, smarrimento e dolcezza de la Mara/Valentina Lodovini ne La giusta distanza: anche lei, giovane ed entusiasta come Davide, arrivata nella città dalla provincia per fare la maestra attraversa la fessura dell’incontro con l’altro, in questo caso un tenero e gentile meccanico tunisino, per uscirne con un po’ più di polvere sulle mani, come canterebbe Cristina Donà. E proprio in questo film lascia perplessi e persino irritati la svolta da giallo della Bassa Padana, perché la morte e la possibile rinascita di Mara erano già contenute nel suo sguardo sospeso tra un piccolo mondo antico e la sua trasformazione in una società multiculturale. Oppure, molto semplicemente, tra lo slancio dell’attrazione e l’improvviso ripensamento una volta spenti gli ultimi fuochi.

Fiamme che non bruciano, ma durano il tempo necessario per fare calore durante un ballo a una sagra di paese. Un ritaglio tra gli short cuts della vita.

 

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