Rahima e Nedim, sorella e fratello, in una sequenza reiterata di Buon anno Sarajevo, attraversano, spesso di notte, un sottopassaggio buio e degradato della Sarajevo di oggi, districandosi tra le ombre di una umanità residuale, che sembrano in procinto di fare capolino dietro ogni angolo. Sono i fantasmi di una guerra civile terminata non troppo tempo fa, che abitano uno scenario post-apocalittico non effettistico né «urlato», eppure di rara intensità visiva.

Dentro questo setting Aida Begić, giovane (classe ‘76) cineasta nata e cresciuta nella capitale bosniaca, si fa carico di tradurre in cinema la concreta esperienza di una intera generazione di suoi concittadini e compatrioti, che hanno avuto la guerra in casa da bambini o adolescenti e ora, da adulti, si trovano a gestirne il post, in assenza di qualsiasi progetto pubblico/politico di ricostruzione. Nei due fratelli, rimasti orfani a causa del conflitto, si incarnano le speranze e le angosce di un popolo: lei, Rahima, la sorella maggiore, cerca di sfangarla faticando malpagata nel ristorante di un boss locale, e mantenere così anche il fratello; lui, Nedim, va ancora a scuola, è un quindicenne «difficile», preda comoda della violenza e della malavita dilagante. Vivono l’una per l’altro, ma non se lo dicono. Attorno a loro si muove un’umanità segnata dalla guerra, tanto nella materialità del quotidiano, quanto nei rapporti umani.

Con singolare adesione al calendario, Buon anno Sarajevo arriva nelle sale italiane portando all’attenzione del pubblico una regista che alla sua opera seconda (l’esordio, Snow, era stato apprezzato a Cannes nel 2008) appare già padrona e consapevole del suo stile. I riconoscimenti raccolti nell’anno appena concluso, tra tutti la menzione speciale della giuria di Un Certain Regard e la vittoria alla Mostra di Pesaro, sono giunti a premiare un’opera di risoluta autorialità, che nell’affrontare una delle grandi tragedie della storia recente sceglie le vie narrative e figurative meno prevedibili e didattiche.

Nei dialoghi il conflitto è poco citato, i suoi segni sono da rinvenire nello scenario urbano deturpato, nella (auto)devastazione di una gioventù segnata dalla droga, nella corruzione eretta a sistema, nell’assenza di sorrisi sui volti dei ragazzi. Ogni tanto, nel montaggio, inserti originali della tv bosniaca, riferiti alla guerra che ha afflitto quelle terre tra il 1992 e il 1995, dialogano con la narrazione, senza che si determini alcuna discontinuità, veri e propri controcampi del racconto finzionale. E poi i boati improvvisi e reiterati: in strada si prepara il capodanno imminente, ma in ogni scoppio, più che la festa, riecheggiano le bombe.

La camera di Aida Begić si aggrappa sin da subito alla nuca della sua protagonista, l’ascetica Marija Pikić, per non mollarla praticamente mai. La pedina, con prolungati e ossessivi pianisequenza, lungo le sue giornate di lavoro e resistenza quotidiana, tra le macerie degli esterni in strada e il brutto di interni dominati dallo squallore kitsch (il ristorante del mafioso) o dalla miseria (l’appartamento dei due fratelli). Il richiamo alla Rosetta dei Dardenne, per scelte estetiche e disegno psicologico dei personaggi, è vivissimo, a partire da quel gesto ripetuto di Rahima che si sistema continuamente il velo islamico sotto cui tiene sepolte le proprie emozioni, così come Émilie Dequenne si aggiustava, meccanicamente, la sua cuffietta da operaia.

Un film lacerato da un’angoscia profonda, che solo sul finire arriva a schiudere un orizzonte, suggerendo che, in sede di catastrofe, brandelli di umanità rimangano impigliati nonostante tutto e riemergano nel momento della condivisione della catastrofe stessa. Un abbraccio, due corpi che si avvinghiano e si giurano ostinatamente forse non la speranza nel domani, ma di certo la promessa di esserci l’uno per l’altro sempre, per la vita e oltre.

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