Parigi – Alamar di Pedro Gonzàles Rubio è la storia intima di un’educazione alla vita in un angolo di paradiso terrestre. Chi esce dalla proiezione del film ha gli occhi pieni della bellezza di un mare terso e trasparente dalle tonalità cangianti come una pietra preziosa, aperto sull’orizzonte del cielo infinito. Presentato in competizione internazionale al Festival du Réel, Alamar è stato accolto con un calorosissimo applauso.

Il film inizia con un breve prologo, filmato in bianco e nero, in cui ci viene raccontato il passato di una coppia. Veniamo così a sapere che un’italiana, Roberta Palombini, e un messicano, Jorge Machado, hanno vissuto insieme per vari anni dando alla luce un bimbo: Nathan. Ma il tempo dell’amore sembra ormai trascorso, troppe sono le differenze di mentalità, di modo di vivere e di cultura che separano la coppia. La donna tornerà a vivere in Italia portando Nathan con sè. Prima di stabilirsi definitivamente a Roma, il bimbo spenderà un’ultima estate di vacanze con suo padre e Machaca, suo nonno, su un atollo corallino in Messico. Per Nathan questa è un’esperienza meravigliosa; vivendo su una palafitta in mezzo al mare passerà, infatti, il suo tempo a pescare, nuotare, giocare ed apprendere migliaia di cose affascinanti sui pesci, gli uccelli e le piante della zona.

Nell’economia del racconto il viaggio di Jorge con Nathan è un lungo addio, ma Gonzàles Rubio sa evitare ogni atteggiamento patetico per lasciare spazio, solo verso la fine del film, ad una melanconia velata. Alamar nasce ed è costruito sulla simbiosi del padre col figlio, dell’uomo con la natura, del cineasta con i suoi personaggi.
Il rapporto fra padre e figlio è tenero, ma fermo. Jorge veglia su Nathan, lo circonda di affetto ma sa anche guidarlo, educarlo. Gli trasmette l’amore ed il rispetto per la natura che lo circonda; per gli animali, per la flora fragile e preziosa della barriera corallina. Costruisce così una sorta di testamento affettivo, uno scrigno di ricordi, di precetti, d’insegnamenti, una valigia piena di esperienze comuni che servirà a  mantenere viva, nella memoria del bimbo, la sua presenza quando ormai saranno  lontani per sempre. Il regista riesce a cogliere con un tocco leggero tutta la complessità del rapporto fra padre e figlio offrendoci un ritratto di una purezza quasi primordiale.

Scegliendo come filo conduttore della trama la formazione di Nathan e l’amore filiale Gonzales Rubio riesce ad evitare un etnocentrismo alla Flatherty per trasportarci in un universo meraviglioso che coinvolge i nostri sensi. Alamar, titolo nato dall’unione delle parole “a la mar”, ha effettivamente un sapore di mare; il regista ci invita a condividere con i suoi personaggi una vita sul filo dell’acqua. Jorge, Machaca ed il bimbo -la pelle abbronzata e piena di salsedine- vanno ogni giorno a pescare su una piccola barca a motore. É una pesca fatta in maniera artigianale; si preparano le esche, si aspetta con pazienza che il pesce abbocchi, si tira poi con forza, quando la fortuna sorride o si vanno a cercare le aragoste, fiocina in mano, sul fondo marino. E poi si riparte per portare il pesce al mercato o per pulire, alla fine della giornata, il fondo della barca con la sabbia bagnata.

 Il regista sa captare la respirazione dei pescatori sott’acqua, il rumore placido e costante della risacca, il soffio leggero del vento. Il film funziona perché i suoi personaggi si fondono naturalmente con l’ambiente che li circonda, sono all’unisono con il piccolo universo che abitano. Jorge, figura centrale di Alamar, incarna con il suo corpo agile e svelto, i lunghi capelli neri, la sua serenità attenta e virile,  tutta la forza arcaica e la saggezza ancestrale della popolazione messicana autoctona. Piccoli gesti quotidiani ci fanno viaggiare lontano e partecipare delle gioie semplici della vita sull’atollo: la preparazione dei pasti squisiti a base di pesce, le cene sulla piccola terrazza della palafitta con sfondo dei tramonti da cartolina. E poi ci sono dei momenti magici, delle autentiche epifanie sul luogo delle riprese come l’apparizione, a metà del film, di un bell’uccello migratore bianco, chiamato dal bimbo spontaneamente Blanquita, quasi per includere, inconsciamente, nella realtà di tutti i giorni, l’elemento femminile totalmente assente da questo mondo di pescatori.
Blanquita diventa un vero e proprio personaggio trasformandosi per qualche giorno in un compagno fedele di Nathan, per partire, alla fine, di nuovo verso mete lontane.
Con uno sguardo tenero e poetico Gonzales Rubio segue la fabbricazione di una bottiglia da gettare in mare. Nathan ci mette dentro un bel fiore rosso ed un foglio di carta su cui ha disegnato tutte le cose importanti che lo hanno circondato durante il suo soggiorno sull’atollo; l’abbandona poi sull’acqua, e la bottiglia andrà verso le sponde del Messico o dell’Italia, chissà…

Un bell’accordo di montaggio ci trasporta improvvisamente in un altro mondo: l’obiettivo è puntato su una distesa d’acqua, ma quando si sposta verso l’alto scopriamo che si tratta di un lago artificiale in un giardino pubblico di Roma.
É inverno; Nathan, in cappotto, sta in piedi accanto a sua mamma e osserva le anatre nuotare. Non possiamo evitare di pensare, guardandolo, che la natura di un parco cittadino debba sembrargli poca cosa rispetto a tutto ciò che ha visto durante la sua vacanza in Messico.

Alamar si sviluppa in una zona porosa in cui il confine fra realtà documentaria e finzione sfuma nella stessa maniera naturale e organica con cui cielo e mare si fondono sulla linea dell’orizzonte. Se le varie situazioni sono ‘costruite’ a priori – Gonzàles Rubio prevedeva infatti ogni giorno delle attività specifiche per i suoi personaggi – il modo in cui vengono vissute e risolte è completamente documentario. Nella vita reale Jorge e Roberta sono veramente i genitori di Nathan, ma il “viaggio d’addio” sull’atollo è stata un’idea del regista, così come pure la figura del nonno Machaca, impersonata da Néstor,  un pescatore locale che il regista aveva conosciuto durante una sua prima visita sul luogo. Gonzàles Rubio, si é sempre mostrato alquanto refrattario a dare delle spiegazioni dettagliate, dicendo che questo miscuglio peculiare fra realtà e finzione, fa parte dell’alchimia del film. L’armonia che emana dalle immagini è frutto di un’esplorazione che si situa all’interno della realtà filmata. Alamar è stato realizzato con un’equipe ridotta al minimo. Due persone, il regista e l’ingegnere del suono, hanno vissuto negli stessi luoghi e condiviso la vita quotidiana dei loro personaggi; da questa simbiosi risulta una grande intimità. Gonzàles Rubio filma ad altezza d’uomo perché fa parte integrante della piccola comunità che sta osservando ma il suo sguardo non è mai invadente; si sente in questo approccio, sensibile ed intuitivo, una riservatezza che é segno di rispetto per l’altro. I movimenti della cinepresa seguono le mosse rapide ed agili dei corpi con una duttilità sorprendente, abbracciandoli come una liana.
L&r
squo;obiettivo, orientato sul volto dei personaggi, é spesso raso terra ma non esita ad attraversare la superficie del mare per seguirli nelle loro frequenti immersioni subacquee, trascinandoci nei meravigliosi fondi marini della barriera corallina.
Nonostante Jorge e i suoi compagni siano continuamente in movimento non c’è nulla di eccitato o di frettoloso nel loro comportamento. La nozione di tempo perde qui il suo senso corrente: tutto è a misura d’uomo in questo film dove la comunicazione è affidata per lo più ai gesti, alle attività comuni e la parola è rara e preziosa.

 Alamar è un’esperienza documentaria serena e liberatoria che sa risvegliare la nostra responsabilità per il medio ambiente senza ricorrere a delle immagini traumatiche.
La bellezza fragile della natura filmata, il rapporto amorevole e rispettoso degli abitanti del luogo per l’universo che li circonda è un messaggio più potente ed efficace in favore dell’ecologia di quanto potrebbero esserlo mille pamphlet di denuncia. Il nome del luogo viene appositamente lasciato nel vago durante tutto il film, ci verrà svelato solo nei titoli di coda con l’appello di preservarlo dichiarandolo patrimonio dell’umanità: si tratta della barriera corallina di Chinchorro in Messico, la seconda al mondo per estensione e uno dei pochi luoghi nel mare dei Caraibi ad avere ancora un ecosistema intatto.
Gonzàles Rubio che vive sulla costa dello Yucatàn ed ha assistito in questi ultimi anni alla distruzione causata nella sua regione da uno sviluppo urbanistico e turistico senza scrupoli ci teneva particolarmente a fare un film su questa area geografica così singolare.

Di fronte a tante qualità si possono perdonare alcuni difetti, come, per esempio, il casting non troppo felice di Néstor, un pescatore del luogo, nel ruolo del nonno Machaca; la mancanza di emozione, di attaccamento fra lui e i suoi presunti famigliari é piuttosto palese. In un film così vicino ai personaggi, così autentico, questa dissonanza salta agli occhi.

Alamar, che ha ottenuto il prestigioso Tiger Award al Festival di Rotterdam, uscirà prossimamente in sala in Francia e in vari altri paesi europei; un grande successo per un documentario. Il film non ha ancora trovato un distributore in Italia; ci auguriamo che possa essere presto il caso.

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One thought on “Alamar: la vita sugli atolli, fra documentario e finzione

  1. e la 4 volta che passo da li e quando riscendo ci vado costi quello che costi, sono moltissimi anni che sto girando il mondo alla zingara e posso ben capire tutto questo percio ti mando un forte abbraccio, ora mi sto spostando x il nord!!! suerte giu

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