Come si chiama quel film di Mario Monicelli dove piazzano una cinepresa dentro la stanza dell’hotel? Mi sembra Camera D’albergo, se non sbaglio, o qualcosa del genere. Pellicola del 1981, sempre se non ricordo male. Niente di straordinario, prodotto pigro ed esangue, nipotaccio bullonato del vecchio cinema popolare d’autore. Ci sono Gassman, la Vitti e un Montesano magro e giovanissimo. Uno schizzetto, un chiodo romanesco, Enrichetto anvedi questo. Donna romana di un biondo popolare, invece, la Vitti svociata e sensuale che imita il personaggio viscerale di Dramma della gelosia, con risultati tra il discutibile e il penoso. Vittorione nel film è un produttore cinematografico mezzo pazzo e tutto fallito, una macchietta agitata che dice un sacco di castronerie. Persino che il più bel film della storia del cinema è Domenica d’Agosto e che i peggiori sarebbero Apocalisse now, così lo chiama lui, e Tango a Parigi, sempre sua la sottrazione dell’aggettivo ultimo. Ci viene in mente questa frase, stamattina, una tra le migliori battute di un film stanco e privo di un autentico rapporto col suo presente, se non per qualche ovvio scampolo paesaggistico e culturale. Ci viene in mente per ricordare Luciano Emmer, milanese, del 1918, che oggi non c’è più, e che di Domenica d’agosto era il regista. Non è di certo il film più bello della Storia del cinema, Domenica d’Agosto, e non è neanche il più importante. Ma è una commedia deliziosa, romana da morire, pastasciuttara e popolare tanto da farsi guardare con ammirato gusto e divertimento. Siamo in un’Italia del 1950, fa caldo e la capitale è deserta. Tutti al mare, ad Ostia, vanno i comuni mortali di una città bollente appena uscita dalla guerra. Ci vanno coi mezzi, con un’automobile riempita in ogni angolo, con gli spaghetti, il vino e tanto rumore. Spassosa, e meravigliosa, oggi, ancora più di allora, che già divertì il pubblico e a tratti lo obbligò a diventare serio, questa pellicola emmeriana ad episodi intrecciati tra loro, corale e forte di un bianco e nero meraviglioso. E’ il primo film importante e popolare per l’autore, dopo una serie di pregevoli documentari sul tema delle opere d’arte. È il primo film di una lista che si allunga sicura fino alla seconda metà degli anni cinquanta, e che arriva faticosamente all’inizio del decennio successivo, per poi sommergersi e sembrare morta per tantissimi anni, fino ad ulteriori sporadici acuti, fino a ieri, che ci hanno detto che Luciano Emmer non c’è più. 1950, Domenica d’agosto, poi subito un altro lavoro, di livello notevole, anche stavolta, con Ave Ninchi e Mastroianni giovane, come nel primo film, e con un Fabrizi in più.  Italiani all’estero, famiglie non dissimili da quelle che l’anno prima riempivano di vociare basso il litorale laziale. A Parigi il gioco è più sottile, più leggero, gli anziani osservano e tentano di controllare, i giovani intuiscono l’amore, con pudore e ingenuità. C’è da ridere anche qui, ancora oggi, più di mezzo secolo dopo, per la freschezza e la scorrevolezza di una commedia che non è ancora all’italiana, ma che servirà ai discepoli ancora in embrione per capire meccanismi ed ingranaggi. Nel frattempo, dopo la trasferta francese, molto italiettiana, Luciano Emmer torna a Roma, nel cuore del centro storico per raccontare tre ragazze della periferia capitolina, paradigmatiche di tanta Italia primi anni cinquanta. Sono tre sartine giovani e belle, pulite nell’anima, di fronte alla vita e ad una società che sta cambiando.

Sono le sue ragazze di piazza di Spagna, che all’ora di pranzo, con delicata e affascinante leggerezza, siedono sui gradini di Trinità dei monti per scambiarsi sogni e pensieri. Un uomo le osserva da una finestra e scrive la loro storia, capendo meglio di loro stesse, quali problemi le caratterizzano e quale segno dei tempi il loro comportamento esprime. E’ il 1952, per la cronaca, tre bei film per il regista, in soli tre anni. E il passo procede sicuro con Terza Liceo, ancora un pellicola sui giovani e sui loro amori.

Poca denuncia, poca inchiesta, anzi nulla e superficiale, nel senso migliore del termine, descrizione degli ambienti e dei sentimenti. Qualche valida annotazione sociale ed ambientale. Fa ridere, oggi, che il film ebbe problemi con la censura perché durante la partita di Pallacanestro le ragazze indossavano i pantaloncini corti. Minchia, che storie, corre il 1953. E la vigilia di una parentesi particolare per il regista, quella del successivo film Camilla, la storia di una domestica che osserva prima di Antonioni, e con una regia meno espressiva di quella del regista ferrarese, i primi problemi di certa nuova borghesia. Giuseppe Marotta scrisse che “il meglio di Camilla sta effettivamente nell’ambientazione, il falso lusso della periferia, degli impiegati, dei funzionari, dei commerciantini di Roma. Date a Emmer le cose, i muri, gli oggetti, le ore, e non ve ne pentirete”. Per il resto tratta il film peggio di quanto questo meritasse, perché se lo sguardo del regista non si infilava sotto le vesti dei protagonisti, quello sguardo comunque c’era ed era sicuro. Camilla, 1954, offre un cinema che “parla di famiglia e dei problemi della piccola borghesia in ricostruzione morale e materiale”, scrive a tanti anni di distanza Maurizio Porro. Emmer non è nuovo a raccontare gli anni ’50 attraverso questo spicchio di società, e se non è Antonioni, non è neanche un esponente della commedia  all’italiana, che per tutti gli anni cinquanta quasi non esiste, e che deriderà più tardi, con cattiveria e genialità, l’ambiente e la fauna osservata nel giardino del paese. E’ un regista valido, comunque, Luciano Emmer, che anche stavolta, attraverso le maniere umili e sagge della domestica Camilla, guarda alla crisi e alle miserie private dei suoi padroni. C’è, nel film, un giovanissimo Franco Fabrizi e passa anche stavolta poco tempo, perché nasca il successivo film di Emmer, il sesto nel giro di pochi anni. E’ Il bigamo, del 1955, sorretto dal fidato Mastroianni e soprattutto da due grandiosi attori italiani, Franca Valeri e Vittorio De Sica.

Strepitoso quest’ultimo, nei panni di un avvocato casinaro e smemorato. Il film è meno sobrio degli altri e più farsesco, allegro forse troppo, brillo di acuti attoriali e insufficientemente attento ad una storia convincente. Pieno di momenti gustosi, tuttavia, pezzi sporadici di grande valore. Poi una pausa, lunga qualche anno, che porta ad uno dei film migliori del regista, il suo ultimo di spesso valore: La ragazza in vetrina, 1960, ultimo atto bellissimo prima di un silenzio lunghissimo e quasi definitivo. Il film racconta una storia di italiana immigrazione all’estero e si installa ben in vista nella bacheca dei tanti bei film italici sull’argomento. Da Emigrantes a Il Gaucho, da Bello onesto emigrato Australia sposerebbe donna illibata a Pane e cioccolata, da
I Maglia
ri a Nuovo mondo. La Ragazza in vetrina rappresenta l’ultimo film dell’autore prima di un silenzio trentennale ed è uno dei suoi lavori migliori. Vincenzo è emigrato in Olanda e lavora in minera. La sua vita è dura e pericolosa ed egli  vuole tornarsene in Italia. Ma tramite l’amico Federico conosce una giovane prostituta e mette in forse il suo progetto di rinuncia. Il prologo del film, tutto nella miniera, è dotato di un vigore drammatico e di una forza realistica insoliti per Emmer, che costituisce, qui, una delle pagine più intense che il cinema italiano abbia prodotto sul lavoro dei minatori e sulla presenza incombente, assidua della morte nei cunicoli del sottosuolo. Il film ebbe forti problemi con la censura democristiana, ed è un vero peccato perché è un film molto bello. Resta il fatto che da quel momento in poi Emmer si eclissa, non trova il modo di sopravvivere in un cinema italiano che vince sette leoni d’oro in sette anni (Il generale della Rovere, 1959, La grande guerra, 1959, Cronaca familiare, 1962, Le mani sulla città, 1963, Il deserto Rosso, 1964, Vaghe stelle dell’orsa, 1965, La battaglia di Algeri, 1966), e che attraverso una commedia graffiante e iperrealistica, racconta il paese molto bene. Il resto cinematografico di Emmer è molto poco e l’ importanza principale di questo autore, da un certo punto in poi, è quella di aver inventato e fatto crescere Carosello, la trasmissione televisiva di dieci minuti che dal 3 febbraio del 1957 al 1 gennaio di venti anni dopo (1977) ha accompagnato la storia degli italiani. Emmer è tornato al lungo di finzione nel ’91, e poi nel 2001 e nel 2003, ancora con i suoi toni delicati e intelligenti, ma ormai fuori tempo massimo per raccontare quel paese che a modo suo aveva ben descritto per un intero decennio. Basta! Ci faccio un film, una lunga, lunga, lunga notte d’amore, L’acqua e il fuoco. Ma è più facile, più bello, più importante ricordarlo per Domenica d’agosto, Parigi è sempre Parigi, Le ragazze di Piazza di Spagna, Il Bigamo, la ragazza in vetrina.

Ciao Luciano, regista prezioso di mezzo secolo fa, che hai fatto film caldi, precisi e gradevoli, appartenenti forse al neorealismo rosa, come si dice in gergo, che non è un certo un insulto, ma un momento importante della storia del cinema italiano, Di cui tu sei parte di sicuro. Buon viaggio.

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