Perché proprio il ’77? Certo ne ricorre il trentennale, ma non si può restringere il tutto solo ad una ricorrenza.  Il ‘77 e gli anni vicini, sono anni di transizione, che preannunciano quello che sarà il panorama politico e sociale del futuro e di cui ancora oggi siamo figli. La maggior parte di noi in quegli anni era bambino, più o meno piccolo: come non sentirsi legati, influenzati dall’humus di quegli anni che ha forgiato le nostre coscienze, il nostro immaginario, i nostri sogni, le nostre delusioni? 
 

Il quadro politico in quegli anni si fa incandescente. La crisi economica è sempre più insostenibile. La contestazione si è spostata dagli studenti del ’68 al mondo operaio e più in generale al mondo del lavoro facendo ipotizzare una “rivoluzione culturale” che presto naufragherà. S’incrementano gli episodi di “guerriglia” con ferimenti, sequestri, attentati, che all’inizio del decennio erano sporadici per diventare quotidiani a fine decennio. L’apice si raggiunge negli anni del cosiddetto “governo d’unità nazionale” (1976-79) e con il rapimento e l’uccisione di Moro (16 marzo – 9 maggio 1978) e l’assassinio del sindacalista Guido Rossa (12 dicembre 1978).  Questo determinò una legislazione e una prassi repressiva, dell’ “emergenza”, tanto più che l’assemblea di Bologna del ’77 dimostrò che l’estremismo ideologico aveva una consonanza, anche se non una meccanica coincidenza, con l’estremismo militare.  

Le conseguenze di questo stato di cose, non fu solo politico, ma investirono il dibattito delle idee e della produzione artistica. Il cinema italiano che fin dalla stagione neorealistica si è ispirato alla realtà, facendo propria la capacità di testimonianza e d’impegno civile, in quegli anni non sa più trovare agganci con la realtà. Nella seconda metà del decennio scomparirono i film (almeno quelli di finzione) legati alle cronache dell’epoca fatte di contestazioni durissime, episodi sanguinosi dislocati nelle università, nelle fabbriche, nelle piazze…

Nella difficoltà di leggere il presente, di prendere delle posizioni, cominciano a prevalere le rievocazioni storiche, le fughe anche parossistiche nel privato, le nostalgie dell’adolescenza e la mitizzazione nostalgica degli anni ’60. Questo allontana ulteriormente il pubblico dal cinema italiano, avvicinandolo sempre più al piccolo schermo dove si può seguire la cronaca quotidiana e l’attualità.  

I film di quel periodo hanno una preponderanza di materiali comici. Lo spettatore sembra cercare un’identificazione con i personaggi dello schermo, insieme a un sentimento di smarrimento, impotenza di fronte ai fatti cruenti che caratterizzano il quotidiano. Il film diventa così valvola di sfogo e specchio della società (vedi i film di Scola, di Monicelli, di Magni e di Risi, così come i personaggi interpretati da Sordi, Tognazzi, Manfredi, Gassman andavano in quella direzione), acquistando forza simbolica e funzione sociale. Così come i film interpretati da Bud Spencer e Terence Hill nascono dal bisogno di demistificare la violenza dilagante. 

In quella fine anni ’70 inizia la crisi del cinema italiano da cui ancora oggi non si è totalmente ripreso. Il nostro cinema nel primo quinquennio degli anni ’70, vede il prolungarsi del boom produttivo, qualitativo (cinema d’impegno e d’autore) e di pubblico che aveva caratterizzato gli anni ’60. Nell’estate 1976 una sentenza della Corte Costituzionale statuisce la “libertà di antenna” dando vita ad una vera e propria giungla mediologica: in pochi mesi sorsero migliaia di emittenti radiofoniche e numerose emittenti televisive private. Nel febbraio 1977 si ha l’avvento del colore. Lo spostamento della “domanda cinematografica” dal grande al piccolo schermo fu inevitabile. Così come lo spostamento d’interesse (economico e clientelare) della politica e dei politici che abbandonarono a se stesso il cinema (non mantenendo la reiterata promessa di una nuova legislazione in materia ferma al 1963)  lasciando che nel caos massmediologico si attuasse indisturbata la legge del più forte. Le centinaia di nuove emittenti appena nate non avevano programmi pronti a coprire l’intera programmazione disponibile, così da una parte s’inizia a comprare programmi dall’estero, dando il via all’”americanizzazione” del gusto e dell’educazione audiovisiva di intere generazioni, soprattutto di quelle più giovani; dall’altra si attinge ai magazzini cinematografici per trasmettere  film di ogni genere e di tutti i tempi. I film così trasmessi diventavano programmi dismettendo il vestito di film per il cinema,  potendo così essere tagliati, ridoppiati con dialoghi impossibili, interrotti da pubblicità… La comodità di vedere un film a casa senza pagare il biglietto vinse sulla pigrizia di uscire, pagare il biglietto per vedere un film, pur se su grande schermo e in condizioni di qualità maggiori. Ma non svanì la voglia di film: verso la fine degli anni ’70, infatti, le centinaia di film teletrasmessi quotidianamente sono state viste da non meno di 5 miliardi di telespettatori, dimostrando che non è in crisi il linguaggio cinematografico, ma l’assetto dell’industria cinematografica, e soprattutto la sua fruizione in sala. La colpa non deve essere data tutta all’“antenna selvaggia” ma anche agli esercenti che hanno concentrato gli schermi di prima visione in centro, chiudendo le sale di seconda e terza visione, non migliorando l’assetto ambientale e tecnico, ma aumentando parallelamente il costo del biglietto. Questo ha determinato una concentrazione in poche sale di pochi film di grande impatto commerciale (spettacolare). A questo si aggiunga lo scadimento qualitativo della produzione filmica nazionale e la parallela rinascita (spettacolare, culturale e industriale) del cinema hollywoodiano: tutto questo ha determinato il crollo della domanda soprattutto di cinema nazionale (grande vincitore, invece, negli anni ’60 e nella prima metà degli anni ‘70), determinando l’egemonia del cinema hollywoodiano che è incontestabile ancora oggi. 

Gli anni ’70 sono anni illuminati per la RAI che si fa promotrice di indagini, e inchieste molto approfondite sulla situazione economica e sociale del paese, grazie anche ai progressi tecnici che rendono più snelli gli apparati di ripresa, di registrazione del suono e di trasmissione dell’immagine. La tv di stato si confronta con la sperimentazione dei linguaggi e comincia anche a produrre e a coprodurre film destinati al grande schermo, puntando a favorire il cinema d’autore. Due esempi che parlano da soli: Padre padrone di Paolo e Vittorio Taviani (interamente prodotto dalla Rai) e L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi vincitori consecutivi di due Palme d’oro a Cannes nel 1977 e nel 1978. Pensiamo ancora a I cani del Sinai di Straub (1979) o a Il gabbiano di Marco Bellocchio o a Prova d’orchestra di Federico Fellini o A Cristo si è fermato a Eboli d
i Francesco Rosi… Sintomatica di questo fervore creativo è la “scoperta” della televisione da parte di Rossellini, che le attribuisce funzioni sociali e che formula un’ipotesi di rifondazione di essa e di tutela della sua autonomia. La televisione viene vista come grande strumento di divulgazione.
 

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