A dispetto del diffuso tam-tam, Là-bas non parla della strage di San Gennaro del 18 settembre 2008, quella in cui sei ragazzi ghanesi innocenti furono ammazzati a sangue freddo dalla camorra solo per lanciare un avvertimento, per far capire chi comanda a Castelvolturno. La contiene in un cantuccio della sua narrazione e si concentra invece su Yssouf, uno dei tanti possibili Yssouf, appena arrivato dall’Africa in terra di Gomorra con un sogno da realizzare, ma che si trova ben presto a fare i conti con le tentazioni di una carriera malavitosa. Prima di ogni cosa però là-bas (laggiù in francese), è un luogo, un altrove imprecisato che annuncia da subito una distanza che non può essere e non sarà colmata. La distanza è quella che separa il migrante in cerca di fortuna in Italia dal proprio paese d’origine, ma è anche la sua alterità rispetto al contesto d’arrivo e, ancora, la nostra impossibilità di indigeni a comprendere davvero la sua storia, la sua vita.
Con la pura forza del cinema (fotografia, ripresa, montaggio), il film di Guido Lombardi, miglior opera prima a Venezia 68, riesce a raccontare queste distanze come pochi prima. Dimostrando uno sguardo sorprendentemente originale sul territorio, il regista napoletano freeza Castelvolturno (luogo indefinito dentro un tempo indefinito) fin quasi all’astrazione, la svuota del bianco e la restituisce definitivamente per quello che è: un avamposto africano in Europa che resiste all’assedio. Non c’è il controcanto del bianco progressista, che tende la mano al fratello nero e apre alla possibilità dell’incontro. Non che non esista sul territorio di Castelvolturno, dove da anni operano meritorie realtà del volontariato che lottano per supplire alla flagrante assenza dello Stato; è che a Lombardi importa stare dentro il punto di vista dell’Altro, cioè una comunità di 15000 (ma forse molti di più) immigrati da decenni insediata sul territorio e, ci piaccia o no, ampiamente avviata all’autogoverno. E l’unico bianco a cui guarda è quello che sta fuori dallo schermo, anzi di fronte, che vede consolidata e non certo sanata, come in un gioco di specchi, l’alterità di cui all’inizio.
Così in Là-bas non si parla italiano, tutt’al più il dialetto tronco, sporco e brutale messo in bocca ai casalesi, difficilmente comprensibile già a una manciata di chilometri da Napoli. L’integrazione è un mito. Ché Lombardi non si occupa né di inseguire né di smontare: a Castelvolturno e dintorni non è una questione all’ordine del giorno, se non in quanto integrazione criminale, alleanza opportunistica tra i clan locali e quelle fette di comunità immigrate che scelgono la via di adattamento all’ambiente più immediata e redditizia. La più logica. Si fa fatica a ricordare un film italiano ugualmente radicale su questi temi. Qui non c’è più nemmeno bisogno di dire che il bianco è cattivo e sfruttatore: in realtà il mondo, ci insegna zio Moses, si divide – trasversalmente – tra morti di fame e avventurieri.
La strage di San Gennaro che giunge nel finale è dunque un gancio di cronaca ex post (è noto che la sceneggiatura di Là-bas risale a prima del 2008) per un’opera che in realtà trova la sua autonomia tutta dentro la sua forma filmica, capace di lavorare sui presupposti sopra esposti e farne cinema. Il “laboratorio” eterodosso approntato a Castelvolturno durante la lavorazione, con pochi soldi e molta passione, che ha coinvolto decine di ragazzi immigrati tra cui sono stati scelti gli attori-non-attori, ha certamente contribuito a infondere verità al film, che trova proprio nelle interpretazioni, sempre al limite tra vita e fiction, un punto di forza straordinario. Insieme a questi volti, Lombardi trova immagini potenti, forse addirittura fondative di un immaginario in costruzione, che lasciano sperare che il suo possa davvero essere un Leone del futuro: il lento movimento di macchina che inesorabile inchioda Yssouf al muro e alla sua moralità, i passi innamorati suoi e della dolcissima Suad che corrono veloci sull’asfalto infinito di una città-fantasma, il corpo nudo di Yssouf nella notte castelvolturnese, che finalmente smessi i panni del bianco capitalista che si era trovato a scimmiottare, trova infine scampo in una bandiera – che certo non può essere quella italiana…
Molto bello, grazie.