Theo Angelopoulos è morto ad Atene investito da un moticiclista sul set del suo film. Per ricordarlo riproponiamo l’incontro avuto con lui a Giugno in occasione della presentazione alla stampa italiana di La polvere del tempo, che vuole essere il secondo atto di una trilogia iniziata nel 2004 con La sorgente del fiume.
Questo film è un po’ la sintesi del secolo precedente. Rappresenta la fine di tutti i sogni del ’900. Perché ha sentito l’esigenza di riflettere sul passato?
In realtà non ero partito con questa idea. Il film arriva in ritardo rispetto a quando lo avevo pensato. L’accelerazione della storia è stata così repentina che il mio film ha finito per diventare una sintesi del passato più che una fantasia sul futuro.
Venuta meno la teleologia della Storia è finito tutto?
Secondo me la storia dell’uomo non può finire: si concluderà quando non esisterà più l’uomo. Uno scrittore giapponese in un libro ha sostenuto che con la fine del secolo scorso la storia del mondo è finita, ma io non sono affatto d’accordo. Possono avvenire cambiamenti straordinari, ma l’uomo resterà sempre al centro della storia. Del futuro parlerò nel prossimo film.
E del presente che ne pensa? Li ricorderemo come i giorni della grande crisi?
La crisi c’è e ricorda quella del ’29. Oggi come allora siamo tutti in mano alle banche e la finanza sta stringendo alla gola soprattutto i paesi che si sono comportati in maniera più allegra. Diceva Brecht nell’Opera da tre soldi: è meno criminale rubare a una banca che fondarne una.
Quanto c’è di Brecht nel suo cinema?
Negli anni ’70 Brecht era un punto di riferimento, anche se non credo che il suo modo di rappresentare il mondo sia stato così totalizzante nei miei film. In questo periodo sento piuttosto di essere tornato alla forma dell’antico atto tragico greco, quello che trova liberazione solo nella catastrofe finale: oggi l’analisi di Brecht non basta più a comprendere e rappresentare la disperazione della vita quotidiana, i tanti suicidi dei giovani, le piccole prostitute di 14 anni che in questi mesi affollano le strade di Atene. Un’analisi sociale o politica come quella di Brecht non è più sufficiente. Per questo motivo sono tornato alle origini.
Il suo cinema richiede pazienza allo spettatore: si sente fuori dal tempo?
Se sono “fuori dal tempo” è perché alla mia epoca il cinema era un linguaggio ancora in grado di cambiare delle situazioni. Oggi invece lo stile tende all’omologazione e al conformismo. Dunque sono contento di provocare. Mi sono sempre posto con estrema sincerità davanti allo spettatore, senza mai mentire: qualche volta sono riuscito a farmi capire, altre volte, invece, no.
La situazione in Grecia è così tragica?
Oltre alla tragedia c’è anche la speranza, quella rappresentata dai centomila giovani che stanno occupando pacificamente Piazza Sintagma, cioè la piazza del Parlamento, chiedendo un cambiamento totale. Così non si va avanti, è ora di cambiare tutto, e questa idea sta toccando tutti i paesi del Mediterraneo: Spagna, Grecia, Portogallo. E forse anche l’Italia, un giorno.
Godard nel suo Film Socialisme ha parlato anche di crisi greca: cosa ha pensato quando ha visto il film?
Che sono completamente d’accordo con lui.
Il suo prossimo film parlerà di crisi?
Sì, e si chiamerà L’altro mare. Sarà la storia di un gruppo di attori non professionisti e di scioperanti che cercano di mettere in scena L’opera da tre soldi di Brecht senza riuscirci a causa dei disordini cittadini. Ma sarà anche la storia di un padre e una figlia. Un incontro tra due generazioni rappresentative: chi ha creato i problemi e chi li sta scontando. Diciamo che sarà una sorta di “Brecht incontra Aristotele”. Per realizzarlo ho riunito una strana coproduzione tra paesi storicamente in conflitto: Cipro, Turchia, Grecia e Israele.
A proposito: il suicidio del personaggio di Jacob, nel film, è una metafora di Israele?
No. Il suicidio di Jacob ha due ragioni: la delusione amorosa e quella ideologico-politica.
Alla sceneggiatura, ancora una volta, c’è Tonino Guerra: come è nata la vostra collaborazione?
Ho conosciuto Tonino nel 1981 a Roma. Ero ospite di amici che lavoravano con Tarkovskij sul set di Nostalghia. Mi parlarono di lui e mi procurai un incontro: dopo 5 minuti che lo conoscevo già stavamo lavorando, io in terrazza e lui seduto in salotto. Dice sempre di no, fa l’avvocato del diavolo: sono 25 anni che lavoro con lui e ormai non è un collaboratore, ma un amico di cui apprezzo la poesia quotidiana, l’umanità, il suo essere civile e colto.
Come giudica il cinema italiano?
Nella mia giovinezza il cinema italiano è stato il “Faro”! In passato c’erano grandi maestri come Fellini, Rossellini, Antonioni. Erano fari della conoscenza. Ci sono anche oggi dei film interessanti, ma non c’è una generazione esplosiva per quel che posso vedere. Ci sono dei piccoli bagliori, c’è Moretti che però appartiene a un altro tempo, e c’è Sorrentino che mi pare molto interessante. Spero che il cinema italiano torni ad essere quel che è stato tanti anni fa.
Grazie per questa intervista. Lo ricordo in una breve e piacevole conversazione metà in italiano metà in francese, non volle usare l’inglese, al Palazzo delle Esposizioni dove mi parlava del lavoro con il grande Gian Maria Volonté, morto sul set del suo Sguardo di Ulisse.