di Simone Rossi/ Avviso per il lettore: questo articolo si basa sulla ripetizione di una parola.
La parola è Paterson.
Paterson è il nuovo Jarmusch, ma Paterson è anche il nome della città del New Jersey, contea di Passaic, in cui il protagonista della storia, che si chiama Paterson (Adam Driver) e che è un conducente di autobus, vive.
Paterson è un uomo innamorato della sua compagna, Laura, ha un cane, Marvin che porta a spasso ogni sera, di ogni giorno, fino al pub in cui, ogni sera, di ogni giorno, seduto al bancone sorseggia lo stesso bicchiere di birra. Paterson ha una vita che non può prescindere dalla routine (il suo orologio interiore lo sveglia, ogni mattina, più o meno alla stessa ora) e come le fermate del suo bus segue un percorso prestabilito che le proprie gambe, prima ancora della testa, riconoscono come l’unico possibile.
Ma Paterson ha il dono di Paterson. Il dono di una città che ha allevato in seno una stirpe di poeti e che sembra trarre la propria forza interiore dall’incredibile immobilità dell’esteriore. Fermo su una panchina di fronte alla potenza delle cascate che segnano il confine della contea, Paterson porta a conclusione i propri percorsi mentali, condensandoli nell’inchiostro che verga pagine di poesia senza rima, fatta in casa, come la pasta, con gli ingredienti che la sua esistenza semplice gli piazza di fronte allo sguardo.
Vedere il non visto. Ascoltare l’inascoltato. E infine sentire per poter raccontare di aver sentito. La prosa del lunedì, tanto simile a quella della domenica, eppure diversa, variata, appena deviata da un piccolo colpo di bisturi, segna lo scarto che apre le porte del poetico. Perchè Paterson coglie le asimmetrie di Paterson e le usa per dire quello che ha già dentro. E riporta, in un viaggio al rovescio, al punto di partenza, rendendo fisicamente tangibili (e quindi concreti, presenti, materializzati), i sentimenti poetici del proprio io interiore.
Ed ecco allora che il mondo chiuso e labirintico di Paterson diviene una cascata d’acqua incessante nella quale le possibilità sono addirittura infinite. Ed ecco che un fiammifero non è più soltanto il mezzo capace di accendere un piccolo fuoco, ma il soffio che animerà la sigaretta racchiusa nelle labbra della donna amata; ecco che una bambina seduta su un cassonetto di immondizia in un vicolo scuro di una via poco raccomandabile è a sua volta una poetessa che scrive (non è un caso, no) d’acqua, capelli sciolti sulle spalle e pioggia; ecco che il mare di voci sovrapposte nella corsa di un pullman immediatamente prima della prossima fermata possono essere isolate, elevate a pensiero, adoperate come spunto per raccontare una nuova storia.
Paterson sorride all’esistenza perché non può farne a meno. Sa già che voltato l’angolo ci sarà sempre Paterson, ma anche altro. Il mondo che spinge per entrare, ma che è già tutto racchiuso dentro. Sa che basta poco per liberarlo: una penna, un foglio bianco, un taccuino. E tutto diventa possibile, attraente, degno di essere vissuto e ricordato. Pure una vecchia cantilena che sentivamo da ragazzini, o almeno il suo curioso ritornello: quello che ci domandava, insistentemente, se avremmo preferito essere un pesce.
E perché no?