La giornalista Karen O’ Connor decide di indagare sulla separazione della celebre coppia dello spettacolo americano “Lanny & Vince”. Nella loro camera d’albergo venne ritrovato il cadavere di una ragazza. Non ci sono prove contro di loro e i due riescono a cavarsela, ma il loro sodalizio è minato per sempre.
Questa in soldoni è la trama di False Verità. Ma anche il punto di vista di un osservatore esterno alla vicenda. Dunque considerato che gli spettatori sono coinvolti sin dalla prima scena, i protagonisti pure, ad essere estraneo rimane il solito vecchio dalla barba bianca, che la vulgata usa chiamare Dio.
Ebbene, noi una volta tanto al Dio (di Egoyan) siamo riconoscenti. Perché ci risparmia la potenziale morbosità che una storia del genere avrebbe potuto produrre in menti meno resistenti al peccato, un David Lynch per esempio (ma vedi anche il George Clooney de Le confessioni di una mente pericolosa).
Invece siamo lieti che lo spettatore sia tenuto a debita distanza. E gliene siamo talmente che arriviamo a perdonare il regista armeno-canadese (e i suoi sceneggiatori) per scelta di decostruire la trama, scelta che sì allontana il pubblico dal fuoco della vicenda, ma lo fa nel modo peggiore. Ne sono prova le innumerevoli serate perse a ricostruire i fatti e cercare nessi insignificanti (che se poi un giorno qualcuno tornerà a raccontare le cose in maniera profonda ma lineare gliene saremo grati). Ma vedete? Ci siamo ricascati. La questione della sceneggiatura ci ha di nuovo allontanato dal senso ulteriore della storia.
La distanza, dicevamo. Ebbene, questa è prodotta dalla narrazione in soggettiva da parte di tutti i protagonisti, che si sovrappongono e generano le possibili verità.
Il punto è: tale narrazione generalmente considerata onesta (perché fa capire al lettore la presenza del reporter, o allo spettatore quella dell’io narrante) è anche garanzia di verità? Il fatto che ci sia qualcuno che fuori d’ogni evidenza si sbatte per noi/sia costretta a mentire/a drogarsi/a fare l’amore con una donna (pur conturbante ex Alice nel paese delle meraviglie)/a rischiare di impazzire, implica necessariamente che si riesca ad arrivare alla verità? In tempi mitici dell’inside story come gli anni ’70 (il periodo in cui la protagonista si muove) la risposta parrebbe automatica, e ogni sforzo ricompensato.
Invece niente da fare, per Egoyan, più ci si muove, meno si tira fuori. E le storie sono solo un pretesto per generare parziali menzogne. O viceversa.
Così c’è la storia raccontata dalla giornalista, che parte da un’ossessione. Negli anni ’50, il suo idolo, Lanny (Kevin Bacon) all’indomani della notte nera in camera d’albergo, in piena maratona Telethon, prima sospira ad una ragazzina che ha appena terminato l’esibizione un “sei bravissima”, poi le dice piangendo “perdonami”. La ragazzina naturalmente è la giornalista da piccola, che ha sconfitto la poliomelite: non ha fatto in tempo a conoscere la grazia, che gli si para davanti terribile la responsabilità.
Fatale che per liberarsene, da grande, cerchi di capire il senso di quel “perdonami”. Altrettanto fatale che per farlo debba scavare nella vita dei due attori, nella loro omosessualità non dichiarata, nel loro amore mai esplicitato, nelle loro menzogne fonti di verità.
Fatale che la ragazza uccisa, non sia la brava studentessa in carriera, ma un’arrivista un po’ zoccola pronta a ricattare i due. Fatale (ed aderente al genere del thriller psicologico) che a ricattare i due, e ad uccidere la studentessa sia il maggiordomo (sempre il maggiordomo).
E che infine l’unica verità possibile, una volta scoperta e dissipato il gioco delle false verità, sia data dalla parola non detta alla madre della studentessa uccisa. Nel giardino dell’Eden in cui è seppellito il corpo della ragazza.
Sotto il solito albero del peccato. Dove, in altre parole (parole che il Dio di Egoyan siamo sicuri apprezzerà) si ripropone un antico e decisivo interrogativo: se, senza la pietà, sia data alcuna verità.