“Amatevi, non divoratevi!” ― potrebbe essere questo l’aforisma a corona di Mon Roi, film francese che piacerà moltissimo al pubblico femminile. Ci scommetto.

Storia di un amore fra una ragazza “normale” ed un “fantasioso imprenditore” d’arrembaggio, a pendolo fra presente e passato. Ad ogni scena di ospedale, nel presente, dove lei è finita per una brutta caduta mentre sciava ― si contrappone infatti una scena del racconto di un amore, in progressione cronologica.

Dall’incontro casuale quindi, con approccio malevolo, alla fioritura di un amore intenso e appassionante, che giunge al culmine con la richiesta, da parte del “roi”, di fare un figlio insieme. Sì, proprio lui, estroverso e vulcanico imprenditore dello slow-food, cucine francese, inveterato scapolo in caccia di modelle e mannequin: ebbene sì, proprio lui si innamora di una semplice avvocatessa ed è pronto per il grande passo.  

Ma…

Ma questa generazione di quarantenni, passati al filtro dell’edonismo reaganiano e della improvvisazione funambolica della propria esistenza con il post-industrialismo, senza ideologie e senza credi, completamente immersi in una cultura materialista che mostra tutta la sua corda ― questa generazione non è capace di solidità. Non è capace di amare di quel tipo di amore.

In realtà sono tutti piccoli egocentrici egoistelli. “Personaggetti col sorrisetto sulla bocca”, direbbe la nostra TV. Bambinoni sviluppati ma non evoluti, non progrediti nella stratificazione della personalità. Accattivanti, certo, ma personaggi usa e getta. Vuoti a perdere. Epperò divertenti e smaglianti, ma sempre per poco tempo. Funambolici. Vanno presi così, non alterati.

E difatti, quando il rapporto giunge al dunque, il matrimonio inverte tutti i valori. Matrimonio e figlio, legami da lui stesso voluti, trasformano la storia d’amore in una storia di ripicche, piccole tragedie, dolori e dispetti. Motivati tutti anche dalla presenza di un’“altra”, bellissima modella sempre sull’orlo del suicidio. Sua ex, ma non ci sono mai “ex”. Non esistono in commercio.

Gli episodi che vediamo sono tutti vissuti dal punto di vista femminile, dalla parte sua. La camera indugia sul corpo di lui, sui dettagli del viso, del collo, perfino del sedere, come se fosse ― alla Bergam ― una avvolgente continua soggettiva di dettagli  e per nulla indifferente, o agnostica: ma al contrario totalmente innamorata. E’ lei che guarda. Che si commuove, che ricorda…

Il pendolo del flash-back.

La controprova la si ha quando quel legame indissolubile e opprimente viene infine sciolto, infranto. In tribunale, il giorno della separazione, sembrano due amanti. E lui può finalmente rivedere lei sotto un’altra luce. La luce primigenia, iniziale. E lei può pensare anche di peccare nuovamente con lui come se fosse uno sconosciuto, mentre è il padre di suo figlio. Ma che dolce e frizzante peccato, con uno sconosciuto che conosci da dieci e più anni! Lo champagne si versa nuovamente nelle coppe, le stesse coppe di allora: le bollicine ritornano a far vibrare le tenui narici. Il cuore trema.

Lui non cambierà mai, lei non lo renderà mai felice.

Una storia di atti mancati, eppure lascia il segno. Lascia quell’amaro in bocca, come di cose vere e accadute.

Lascia anche una riflessione, sulla validità storica di legami interpersonali in un mondo che è diventato troppo diverso, veloce, frettoloso, istantaneo, a volo d’uccello, e dove la personalità non ha più il tempo di costruirsi, ma rimane frammentata in un eterno caleidoscopio di emozioni e di risposte.

E il piacere di riosservare, nel caleidoscopio, un disegno che ci era piaciuto immensamente e ci aveva fatto sognare, e che è ritornato sotto il buco come per magia: lo stesso, identico, bellissimo. E che non ritornerà  mai più.

Non metto nomi volutamente, sono poco importanti. Per i cinefili Emmanuelle Bercot è Tony, Vincent Cassel è Giorgio. Perfetti. Il resto è indifferente.

 

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