Quando il 30 luglio 2007 a distanza di un pugno d’ore se ne andarono Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman, sembrò al mondo (almeno al nostro piccolo mondo cinefilo) che si chiudesse con la più spettacolare delle bi-morti un’era irripetibile: quella del cinema moderno, o forse del cinema d’arte, cui molti subito ripensarono con la straziata nostalgia della vedovanza, molti altri con l’ironica sufficienza di chi minuetta grazioso sulle rovine.

Entrati ancora di un soffio nel futuro, però, ci vien da dire che se vogliamo prendere un nome, un nome soltanto, a simbolo ed epitaffio di un secolo che fu delle motion pictures, e a meraviglioso superamento dello stesso, ebbene, questo non può che essere: De Oliveira, Manoel (Oporto, 11 dicembre 1908-…).

L’uomo di cui si celebra da un anno, e ora in flagranza, il centenario. L’uomo la cui aurora filmica fu con gli ultimi fuochi dell’epopea muta, quando nell’Europa periferica affacciata sull’Oceano si inventava, ancora una volta, la vertigine ombrosa del cinematografo. L’uomo per cui il sogno al nitrato fu stralcio di vita tra gli altri (fotogrammi mitragliati da bolidi in corsa, limpide inquadrature di vitigni in filari ordinati sulle sinuose anse del Douro), per decenni, contrappuntati da opere distanti, attese con la pazienza di un Dreyer. Da un paese invisibile agli schermi e alle menti, circonfuso di oblio salazariano.

E poi, e poi: una maturità decantata come un porto vintage di Vila Nova De Gaia, quando la botte inizia a stillare il bruno liquido sempre più fluente, e le vendemmie si moltiplicano esponenzialmente, all’avvicinarsi del cambio di secolo, allo sfociare in un’altra giovinezza sempre più libera nel distillare sublimi divertissement letterari ed excursus didattici après Rossellinì, note a margine buñueliane o compendi di storia di una nazione in esilio, saggismi autobiografici sui generis e parola che si fa carne.

Infiniti ritorni a casa, che diventano viaggi cosmici verso la semplicità dei primitivi; o verso l’aldilà del Mastroianni estremo; o verso il dettaglio segreto che rivela l’ordito di un’intera eredità culturale. Che può essere anche l’abbraccio primigenio consegnato con nonchalance al quadrante di uno Swatch datato 2003.

100 anni? C’est un detail…

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