Perchè sì

Perchè no

di Edoardo Zaccagnini

Lo spazio bianco serve a mandare al cinema un po’ di italiani senza macellarli con parolacce, tette e fighetti romani in motorino. Ma anzi, garantendo loro quella che si dice una buona storia, raccontata dignitosamente, con l’accortezza di partire dall’inizio, saltare a tre quarti di narrazione, recuperare a poco a poco i tasselli del mosaico, e regalare, in fondo al bivio, un finale lieto dopo un po’ di sopportabili tensione e sofferenza. Film serio ma non troppo, colloquiale e familiare nella spontaneità e normalità dei personaggi, drammatico alleggerito da una confidenza del protagonista, dalla vicenda della porta accanto, dalla simpatia della verosimile normalità dei caratteri di contorno. E’ un film medio italiano, Lo spazio bianco, girato con omologate eleganza e autorialità, fotografato con freddezza e lucidità dal bluastro Luca Bigazzi, e scritto con sufficiente solidità a partire da un romanzo bello come quello di Valeria Parrella.

  La Buy fa la differenza vera, Margherita è da applausi, ed è con lei che il film si avvale del kers, che la pellicola recupera tutta l’energia e la rigetta nella corsa verso il finale, alla ricerca della ricerca dell’emozione, e qui, insomma, a differenza di quanto ne dicano certi protagonisti in promozione, beh, noi, di questo desiderio di piangere, veramente non ci ricordiamo, piuttosto parleremmo di attenzione e coinvolgimento soddisfacenti, tanto fluida è la vicenda e tanto interessante il tema. Una leggera patina l’abbiamo sentita, la stessa che ci ha fatto scorrere il film addosso toccandoci senza farci mai veramente del male, in senso cinematografico, in senso positivo. Commedia e dramma mantecati, semplici e una manciata gli ingredienti che fanno de Lo spazio bianco un buon film italiano da 150 copie. Un film da concorso veneziano che non prende fischi perché non se li merita, che magari qualche applauso se lo piglia pure, ma più di quello niente più.

Li ripetiamo: il tema di una sofferta maternità, un’attrice bravissima in cui è facile identificarsi, una regia attenta e masticabile da tutti, una sceneggiatura non scontata ma nemmeno strafottente, un paesaggio napoletano mezzo cartolinesco e mezzo gomorriano. I personaggi sanno camminare e parlare, crediamo nella loro esistenza anche se di loro non ci innamoriamo. Avremmo da aggiungere qualcosa sull’inserimento di alcuni temi cari alla regista più brava delle due sorelle figlie di Luigi. La fabbrica, presente qui un istante, nelle due dita tagliate del sempre onesto e tenero Salvatore Cantalupo di Gomorra (Francesca aveva realizzato due anni fa un documentario alla memoria degli operai, dal titolo In Fabbrica); la figura nobile di una dipendente dello stato che lotta contro i mali della nazione per poi dover accettare che nulla si può contro un paese che rende accettabile l’inaccettabile. In questo caso è un magistrato, in A casa nostra era la figura di un finanziere, entrambe donne, malinconiche, sole e severe. La maternità sentita nella sua complessità moderna, nel film precedente desiderata e sconosciuta per colpa di un compagno insicuro e non innamorato. E poi la passione della regista per le storie femminili di donne sole: Mobbing, con la bravissima Nicoletta Braschi, ed ora questa donna matura ed irrisolta, senza legami e grande equilibrio, eppure bella nella sua comune confusione, che decide di accogliere con amore e silenzio quella vita che le è stata donata. Alla Comencini non dobbiamo chiedere film diversi da questo, che è seducente e pulito, accattivante, delicato e fandanghiano, perché se accettiamo positivamente i suoi lavori, e A Casa nostra era un film più importante di questo, perché più decisamente e problematicamente legato al presente, le possiamo dare la possibilità di sfornare il migliore della sua carriera, e tenercelo stretto in un cassetto. Per ora constatiamo la stazionarietà di una narratrice di storie interessanti vincolate in maniera stavolta accennata al presente culturale del paese. Lo spazio bianco, per dirla in una maniera che va un pò di moda e che non significa granchè, è un film che si lascia guardare. Con piacere di chi guarda.

di Alessia Brandoni

 “Ho provato. Aspettando la metropolitana per l’ospedale, tutti i giorni, ho provato a leggere saggistica. I primi tempi ci sono riuscita, perchè non avevo altro se non la mia testa. Ed era una testa molto esercitata sui libri.

Nei pomeriggi lunghissimi delle medie, tra la fine dei compiti e l’inizio della sera, la stanza si dilatava: qualunque rumore arrivasse dai capannoni delle conserviere che ci soffocavano l’aria, qualunque rancore i miei si rilanciassero da un estremo all’altro del corridoio, venivano assorbiti dal silenzio del tempo fermo. Io leggevo.

La testa si era esercitata così, a fidarsi solo di se stessa. E allora ritornava nell’equivoco di bastarsi da sola ogni volta che si sentiva tradita dalla realtà“.

Questa è l’apertura del prologo de “Lo spazio bianco”, libro della napoletana Valeria Parrella, classe 1974, da cui Francesca Comencini ha tratto l’omonimo film avvalendosi dell’interpretazione a tutto campo di Margherita Buy. In questa recensione si abbozzerà qualche riflessione sulla traduzione cinematografica del libro, preferendo, in tal modo, non approfondire il tema della storia, comunque in entrambi i casi, ma soprattutto nel film della Comenicini, non molto approfondito. 

La scrittura della Parrella è secca e asciutta, a tratti fin troppo, ma ricesce a tenere insieme con rigore il percorso di attesa che condurrà la protagonista a rovesciare la cattiva abitudine iniziale del “bastarsi da sola”, la sua tentazione di onnipotenza (“niente è stato più completo e libero della mia solitudine nella mia casa“). La Comencini, diversamente, sceglie di sceneggiare molto il libro, arricchendo il film di personaggi, rumori e colori, e di quel “sociale” che da sempre, spesso con intelligenza e sensibilità, cerca di interpretare. Ma questa abbondanza visiva e tematica, in questo caso, consiste nell’essere il limite stesso del film, dove la tensione e le aspre profondità del cammino della protagonista finiscono per essere banalizzate a misura dell’addizione dell’ennesima nota di pianoforte alla Keith Jarrett, dell’ulteriore sigaretta della Buy -nevrotica di default-, dei troppi paesaggi di una Napoli non sottratta allo stereotipo, dei movimenti di macchina a tratti televisivi e, infine ma fatto importante, delle tante parole, quelle stesse che il libro, paradossalmente, solo suggeriva.

Pesantezza da eccesso di patina e trucco. C’è un senso di soffocamento nelle immagini e nella musica di questo modo di fare cinema. Il respiro della realtà, che in questo caso dovrebbe corrispondere a incertezza e senso di inadeguatezza, dolore e silenzio (così denso da annullare il pensiero: l’io cartesiano della ragazzina che legge nella stanza chiusa), a un’attesa che diviene feroce per l’ambivalenza dei sentimenti che provoca, a un “non lo so” che rende informe la certezza dietro cui ci si era fino ad allora nascosti, è bloccato nei movimenti che più servirebbero a restituire l’intensità e il significato di un’esperienza umana attraversata da una simile prova.  

Nella salita per i quartieri spagnoli della protagonista, l’insegnante Maria, nel modo in cui questa viene narrata e rappresentata, sta tutto lo iato tra il respiro della scrittrice e quello della regista. Nel tono, nella scelta delle priorità, nel rapporto con l’esterno, nell’abbandono del rapporto cognitivo con il contesto che diventa spazio allucinato dentro la testa della donna. Uno spazio bianco. Che forse giusto i Dardenne avrebbero avuto l’essenzialità di filmare. Laddove avrebbero scelto, molto probabilmente, di stare addosso alla persona piuttosto che mostrarla, direi troppo ideologicamente, sola in mezzo al (pittoresco) resto intorno. E naturalmente niente musica, in un accadimento così. Questa, sì, una scelta morale.

E dunque lo spazio bianco, quello che lo studente serale Gaetano (tre dita nella mano destra, cioè a dire incidente sul lavoro) riceve in risposta dall’insegnante all’esame di maturità quale forma grammaticale, ed essenziale, per agire due presenti: una riga bianca e poi continua il tema a capo. “Ma lei non ce lo aveva mai detto”, risponde lui, nel timore di assumersi fino in fondo la responsabilità di andare avanti in un presente che non è più quello dell’analfabeta. E nello stesso tempo avviene lo scioglimento dello spazio bianco della protagonista, cioè di quello spazio di attesa galleggiante in un “non lo so”, lei che sapeva tutto. Ecco, allora, che lo spazio bianco tra il prima e il dopo, l’attesa, in cui l’ambivalenza tra il quello che si era prima e il quello che si è ora rende non così lineare il percorso, alla fine riesce ad essere la prima pagina bianca su cui scrivere. Nuovamente. E al presente.          

Un’ultima cosa. All’anteprima del film svoltasi alla Casa del Cinema di Roma, durante la conferenza stampa organizzata alla fine della proiezione, è stato invitato a salire sul palco un tipo, molto grottesco, rivelatosi un rappresentante del Movimento per la vita, il quale, con sorriso parecchio beffardo e sfido chiunque dei presenti a dire il contrario, ha consegnato alla Comencini il premio per… non ricordo più quale assurda dicitura sia stata pretestuosamente usata per parlare di “pro life” quale, ovviamente, unica scelta necessaria a non sentirsi un’assassina. La regista, pur stigmatizzando fermamente e in modo articolato gli obiettivi del suddetto movimento, in nome del dialogo e di una comune, seppure diversa, spiritualità, ha accettato il premio. Ecco, sarebbe stato meglio rifiutare quel premio. Molto seccamente.     

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