Perchè sì

Perchè no

di Giovanna Quercia

Terzo titolo apocalittico per Denys Arcand dopo Il declino dell’impero americano (1987) e Le invasioni barbariche (2003). La traduzione del titolo originale L’age des ténèbres è infatti “i secoli bui” o “l’età delle tenebre”. Naturalmente Arcand continua a parlarci sempre e solo dell’Occidente contemporaneo, che lui continua a vedere come una civiltà in forte decadenza (per la verità il protagonista usa il termine “disintegrazione”) riprendendo l’ormai accettato paragone con l’impero romano. Stavolta, però, l’autore non ricorre a personaggi intellettuali ex sessantottini disillusi, in qualche modo alter ego di se stesso, ma racconta la vita (e i sogni) quotidiani di un uomo medio che più normale e insignificante non si può.

Il protagonista Jean Marc (Marc Labrèche), infatti, è una sorta di Fantozzi canadese, è everyman: impiegato statale, pendolare, è sposato con due figlie e vive in una villetta a schiera con il prato in ordine. Il guaio è che la sua vita, che molti a Roma definirebbero con un sol termine “sfigata”, non è certo un caso particolare. Le figlie adolescenti indifferenti a tutto tranne a ciò che proviene da ipod e cellulari, la solitudine della madre anziana accanitamente tenuta in vita nonostante le atroci sofferenze e le sue fantasie esclusivamente dettate dal successo sociale o sessuale, ci dicono infatti che la vita di Jean Marc è la cartina di tornasole di un’intera società, forse di un’epoca. Un’epoca in cui gli uomini, a furia di rinnegare la propria parte animale hanno finito per perdere anche l’anima (d’altronde contenuta nella parola animale), e conducono un’esistenza così priva di piacere e di bellezza, che rimane ormai soltanto da chiedersi cosa verrà dopo questa folle corsa verso l’autodistruzione.

Torneranno i barbari? Quale Medioevo ci aspetta? Questa volta Arcand, attraverso l’abile trovata della donna che continua a credere di essere la principessa del gioco di ruolo cui partecipa, si spinge fino a rappresentarlo effettivamente, l’evocato Medioevo, e mette in scena un torneo con i cavalieri che si sfidano a morte per conquistare la bella figlia del Re: la fortezza, le armature, le lance, i cavalli… Il nostro cineasta canadese, da sempre innamorato dell’Europa, non si fa mancare niente. La  sorpresa è che il Medioevo rappresentato è altrettanto ridicolo, grottesco e casuale della vita contemporanea. Lo sguardo sarcastico di Arcand si scatena: l’insensatezza e la brutalità dei combattimenti medievali fra cavalieri non è infatti tanto differente dal mobbing feroce che devasta gli ambienti di lavoro del terzo millennio. Che cosa dobbiamo dedurne? Le possibilità sono due: o secondo Arcand viviamo già in una sorta di Medioevo nonostante l’aspetto ipertecnologico, i comfort e gli incredibili progressi del politically correct (…), oppure l’incapacità umana di soddisfare i propri bisogni senza nuocere agli altri è universale e appartiene a tutti i tempi e a tutte le latitudini.

Nonostante il pessimismo di entrambe le soluzioni, tuttavia il film non si chiude senza la speranza di un riscatto, seppur individuale. Un bel giorno, infatti, il nostro everyman pianta tutto (moglie disumana, figlie aliene, lavoro inutile e frustrante, amanti immaginarie) e si ritira in un cottage affacciato sull’Atlantico. Solo, finalmente senza illusioni, senza obiettivi, senz’altra aspettativa se non quella di attingere una qualche forma di saggezza, compie un salto tanto impercettibile quanto decisivo: esce dal tempo preordinato, si sottrae all’inevitabile separazione dal Tutto (e da tutti) che la vita moderna pretende, entra nel Qui ed ora. Lo lasciamo sereno, intento a sbucciare la prima di una lunga serie di mele, totalmente immerso in un semplice atto. Tiriamo un sospiro di sollievo: l’apocalisse è rimandata.

di Alessia Brandoni e Alessandro Trionfetti

A circa vent’anni dall’uscita de Il declino dell’impero americano, l’ultimo film del canadese francofono Denys Arcand definisce più chiaramente quanto già avevamo sospettato per Le invasioni barbariche: le dinamiche rappresentate in tutti e tre i suoi film sul declino della società occidentale, piuttosto che creare consapevolezza e senso critico, attraverso il loro nichilismo panico e la costruzione assoluta del senso, costituiscono delle comode, indulgenti e consolatorie vie di fuga. Il protagonista, novello inetto sveviano (ma senza il “vizio” della critica), sembra aggirarsi, carico d’umanità e con una pialla tra le mani, alla ricerca spasmodica di un conflitto da pianare, sia esso sociale, politico, familiare, sessuale, esistenziale o artistico.Quello che infatti passa per essere uno sguardo lucido e disincantato, se non cinico, di un intellettuale ormai al di sopra delle parti –più un venerato maestro che il solito stronzo, per dirla con le parole dello spregiudicato fantasista nostrano Edmondo Berselli -, in quest’ultimo capitolo di una commedia ben poco umana, svela la debolezza dell’analisi a vantaggio di istanze regressive e irrazionali.

La disillusione e il rifiuto dell’azione, che sfocia nell’alibi della complessità (“avete delle vite troppo complesse, non possiamo fare nulla per voi”) come giustificazione etica all’immobilismo, poggia infatti sull’annullamento delle differenze sociali e del conflitto, per una finta condivisione di presunte categorie universali che eliminano nel nascere qualunque elemento contraddittorio. Si pensi a tal proposito ai confronti che il funzionario provinciale tiene con disoccupati, immigrati ed emarginati, rispetto ai quali il popolare sentimento del “dolore” sembra capovolgere la piramide sociale. Un lavacro per la coscienza dello spettatore che può così liberarsi (con soli sette euro) dai sensi di colpa verso l’ ingiustizia e la difficoltà di reale comprensione dell’altro (ben lontano dall’”umanesimo” di Ken Loach, che fa corrispondere ad una semplificazione dell’analisi del conflitto di classe la necessità di un’assunzione di responsabilità personale che può ben produrre un’azione “contro le regole”).

L’altra faccia di questo lamentoso nichilismo d’accatto, che passa prima per l’evasione nel sogno (rifugio tradizionale della repressione borghese, nelle sue varie frazioni…) si concretizza nella scelta della prospettiva panica del finale. Gli elementi conflittuali espressi nei sogni del protagonista (quasi tutti connotati da stereotipi maschilisti e di potere) trovano sintesi pacificatoria nella fuga conclusiva.

L’unico momento di lacerazione che l’impiegato sembra vivere, ovvero la separazione dalla famiglia, viene repentinamente ricomposto dal sorriso comprensivo della moglie e delle figlie, fino a poco prima maschere apocalittiche dell’inumano.

 Arcand fa del luogo comune dello “squarcio lirico” (come anche Mendes in American beauty) un punto centrale per la comprensione del film. Al piccolo borghese spaesato e intimorito dalla violenza della storia non rimane che la regressione preindustriale al paesaggio lirico, il ritorno ad un’oasi fuori dal tempo, in una economia convertita a raccolti e baratti, popolata di belle nature morte e figure asessuate, sicché tutte le paure del piccolo funzionario, tornato “fanciullino”, vengono esorcizzate (il denaro, il sesso, la morte). Come dire decadenza senza putrido e bellezza senza polpa.

Questa corsa regressiva per far scomparire la realtà esterna – la complessità – non può che concludersi nell’esperienza individuale della camera, luogo in cui regna il silenzio, la fine della comunicazione, lo sguardo protettivo di una donna finalmente de-erotizzata, che sembra in qualche modo colmare l’assenza della madre. E in tutto ciò l’unica donna che peraltro pare possedere sfumature sessualmente umane è la collega lesbica (altra scorciatoia pseudoprogressista, speculare al tema dell’eutanasia ne Le invasioni barbariche).

Dall’apocalisse medievale alla riscoperta del valore delle piccole cose (sbucciare una mela…).

Dopo i romani, i barbari e le tenebre dell’età di mezzo ci aspettiamo, quantomeno, un salto nell’esotico.               

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