[****] –  Una storia vera. Un regista sperimentatore e post moderno come Danny Boyle (basti citare Trainspotting e The Millionaire). Un personaggio eclettico come James Franco, che chiamare attore è poco, in quanto anche regista, sceneggiatore, scrittore, pittore, performance artist e altro ancora. Un film candidato a ben 6 Oscar (una curiosità: il presentatore della cerimonia era proprio James Franco con Anne Hathaway). Se gli ingredienti di questa pellicola non sono sufficienti a consigliarne la visione, può esserlo forse la consapevolezza, dopo un’ora e mezzo circa di film, di essere stati inchiodati alla sedia senza annoiarsi un solo minuto, nonostante l’adrenalina sia un fatto mentale e interiore, più che una conseguenza voluta del montaggio. Danny Boyle accompagna sicuramente lo spettatore al momento saliente e crudo cui tutti arrivano a pensare giungerà il protagonista, ma non lo fa con la stessa superficialità e voyeurismo voluto, caro ad altre sue pellicole, bensì con un tocco in più, un oltre che fa pensare.

Aron Ralston (James Franco) è un ingegnere con la passione per il trekking ed il biking, che in un fine settimana del 2003 parte per una gita solitaria nel Blue John Canyon dello Utah. Quella che sembrava una giornata divertente, colorita anche dall’incontro con due simpatiche escursioniste, si trasforma però in un dramma, quando Aron ha un incidente a causa del quale resta con il braccio intrappolato da un masso per quattro giorni e mezzo, sopravvivendo in condizioni estreme, bevendo la sua urina e liberandosi con un gesto che, solo la disperazione e insieme il desiderio di vivere, possono portare un essere umano a compiere.

Il primo tempo è spensierato e forse un po’ incosciente, lo spettatore vorrebbe essere al posto di quel giovane che letteralmente vola con la sua bici fra canyons assolati, che fa il bagno scherzando con due belle ragazze (anche se il regista con piccoli dettagli, prepara alla tragedia), che sembra coraggioso e senza paura come solo quando si è giovani, ci si sente. Da qui al buio della solitudine e della tragedia è un solo istante, proprio come nella vita. Un appuntamento col destino, forse. Un’occasione per scendere metaforicamente nella gola spaventosa dell’inconscio e scoprire che non c’è libertà e leggerezza senza consapevolezza. O forse solo un evento che noi stessi, come dice Franco in una sequenza, prepariamo con cura, la stessa con la quale costruiamo e arrediamo le celle dove sopravvivere alla galera dell’esistenza.

Niente è per caso o almeno così sembrano suggerire le interminabili ore che lo spettatore passa con Ralston-Franco sprofondato e intrappolato nel fondo del canyon. Un tempo cinematograficamente difficile da rappresentare (del resto Boyle erano quattro anni che aveva l’idea di realizzare un film sulla storia che Ralston aveva scritto in un libro, pubblicato in Italia da Rizzoli), eppure non sembra mai che qualcosa sia “fermo”, come è stato scritto si tratta di un film d’azione, recitato da un attore che sta nella stessa posizione per quasi tutto il film. Niente a che vedere con la fissità di Buried né con il senso di morte che lì si respira. Qui tutto sembra pulsare e fare male, suggerire e spaventare, proprio come quando si comincia il difficile viaggio alla scoperta del Sé, o semplicemente a Vivere.

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