Perchè sì

Perchè no

 di Martina Federico

Midnight in Paris è bello per la stessa ragione del film. Senna, Trocadéro, Tour Eiffel, Hotel du Louvre, Senna, Tour Eiffel, Place Vendôme, Île Saint-Louis, Tuileries, Senna, Notre-Dame, Place de la Concorde con la pioggia, Quartier Latin, Place de la Concorde con il sole, notte, giorno, pioggia, Quai de la Seine, Arc de Triomphe, Louvre, Senna, Opéra, Quartier Latin, tetti parigini, tetti parigini, Mk2 Cinéma, Boulevard Saint-Michel, Senna, métro.

Parigi, ossessivamente. Un incipit lunghissimo e ripetuto che finisce in Parigi Esterno Notte, Midnight in Paris. Postcards from Paris, perché Parigi si conosce attraverso l’arte, la letteratura. Le cartoline (soprattutto mentali). A fare da inizio, sono le stesse didascaliche immagini con schitarrate spensierate di Vicky Cristina Barcelona, ma che questa volta hanno qualcosa in più, perché rimandano al significato stesso del film, alla storia che intende raccontare. Questa volta sono funzionali all’idea.

L’Idea. Il film di Allen è un cast che basta (Adrien Brody che, con quel profilo antico e aristocratico, fa Dalì, rappresenta una delle scene più divertenti), ma si avverte la mancanza del talento recitativo del suo regista, o anche solo del doppiaggio italiano della sua voce, che fa ridere alla prima sillaba dotata di senso. Lui non c’è, ma Owen Wilson è inequivocabilmente il suo delegato (il regista peraltro prende immediatamente le sue parti): la recitazione tentennata non fa assolutamente dubitarne. Gli “io..io…io…” di Allen sono sempre loro, anche se hanno un altro viso. L’esitazione, l’incertezza, il tentativo, l’agitazione, si direbbe: la balbuzie, è la stessa. Owen Wilson è sfuocato, sfumato, sottile (nel senso di poco spesso), senza primi piani (e del resto è un perdente anche se Allen lo farà vincere.) Proprio come lo sarebbe stato Woody, che però avrebbe compensato con la recitazione fuoriclasse. Ma questo conta poco perché il film va da un’altra parte, è funzionale all’Idea. Oltre al suo modo di recitare, Allen introduce all’interno del film contemporaneamente il totale senso di inadeguatezza a tutto, che ha caratterizzato il suo stesso personaggio fin dagli esordi.

Midnight in Paris racconta infatti di una incapacità, quella del protagonista di diventare romanziere, di essere capito dalla fidanzata (il facsimile di Scarlett) e dalla famiglia di lei, di accettare il presente senza subire il fascino del passato. È talmente inadeguato al 2010 che si ritrova, improvvisamente, una notte, a una festa organizzata per Jean Cocteau, dove Zelda Fitzgerlald gli dice una delle frasi più geniali del film: “il mio vero talento è bere”. A dargli una mano per realizzare il suo sogno, una manna dal cielo. All’interno di un mondo che non lo comprende, si ritaglia un mondo un po’ più piccolo che è contemporaneamente il sogno della sua vita (vivere nella Parigi degli anni Venti) e il tramite grazie al quale riesce a scrivere il suo romanzo. Eccola, l’Idea. La dannosa fascinazione per l’immagine; cioè per l’arte, cioè per l’inganno degli inganni: il tempo. Per realizzare l’idea, Allen stratifica il film in tre epoche e ne consente il passaggio attraverso da parte degli attori. Il punto di forza del film sta tutto qui, nell’assoluta coerenza dell’incoerenza più totale. Diventa talmente noncurante rispetto ai suoi (eventuali) scivoloni che finisce per farne uno stile, tra il fantastico e l’irreale, senza un attimo di esitazione, senza spifferi da nessuna parte. È sempre il mantenimento della coerenza ciò che non fa meravigliare i personaggi che si incontrano tra loro in epoche diverse (evitando di scadere nel facile fraintendimento. Eccezion fatta per il valium, la pillola del futuro).

Senza perdersi, il film va dritto all’obiettivo: allestisce tutto in modo che sia esclusivamente e il più possibile funzionale alla sua Idea. Nonostante il film sia doppiato pessimamente, il personaggio di Adriana (Marion Cotillard) abbina a una recitazione stralunata un accento imperfetto che dà un tocco esotico al film, che lo rende, a sua volta, particolarmente leggero e piacevole, cioè una commedia alleniana. Le epoche cambiano, le cose evolvono. Un tempo ci sarebbe stato Woody a recitare. Non è Annie Hall, perché fuori dall’âge d’or non può esserci nessuna Annie Hall Chez Maxim. Al di là di questa certezza, c’è la nostalgia. Il film è bello per la stessa ragione del film.

 di Luca Atero

Dopo Londra e Barcellona, e in attesa di Roma, continua inesorabile il giro d’Europa di Woody Allen, che negli ultimi anni si è spesso allontanato dalla nativa New York (con l’eccezione di Basta che funzioni, la cui prima stesura risale infatti a trent’anni fa). Con Midnight in Paris il nostro approda a Parigi, città in cui da sempre sognava di girare un film. La tentazione sarebbe quella di liquidare il tutto con una frase standard del tipo “Niente di nuovo sotto il sole” – affermazione valida praticamente per tutta la sua produzione degli ultimi 10-12 anni, e che probabilmente metterebbe d’accordo detrattori, ex estimatori, irriducibili affezionati. La geniale ispirazione risulta ancora una volta non pervenuta, delle proverbiali battute (un paio delle quali sono spesso in grado di dare un senso anche alla pellicola meno riuscita) resta solo qualche pallidissima traccia, e ogni aspetto del film sa di già visto: la coppia male assortita, l’aspirante scrittore frustrato, il pedante, ma colto e fascinoso intellettuale, in questo caso con Mont-Martre o gli Champs Elysees sullo sfondo. Parigi, si diceva: dalle prime inquadrature, un omaggio alle bellezze della città, fotografate con impeccabile maestria e accompagnate da un commento musicale, sembrerebbe quasi di essere dalle parti di Manhattan; purtroppo, invece, l’atmosfera declina presto verso quella turistica del deludente Vicky Cristina Barcelona. Lo ricorda molto, troppo da vicino, tutta la struttura del film: anche qui una coppia di promessi sposi in vacanza, le tentazioni che si presentano per entrambi, alcune scene francamente superflue che hanno tutti i connotati dei video turistici (per esempio quella della tanto discussa comparsata della premiére dame Carla Bruni, che spiega ai protagonisti una statua di Rodin). Gil (Owen Wilson), sceneggiatore alle prese col tentativo di scrivere il suo primo romanzo, è da sempre innamorato di Parigi, ma avrebbe preferito vivere lì negli anni Venti (il più bel periodo della storia parigina, anche “sotto la pioggia”, aggiunge sempre). Una notte, dopo aver lasciato la sua ragazza con degli amici, decide di fare due passi, si perde e viene abbordato da un’auto d’epoca, nella quale incontra nientemeno che Francis Scott Fitzgerald con sua moglie Zelda. I due lo catapultano, ogni sera a mezzanotte, direttamente nell’epoca dei suoi sogni, faccia a faccia con i suoi miti: Hemingway, Gertrude Stein, Picasso, Dalì…
A questo punto sembra quasi che Allen voglia rileggere a modo suo la saga di Ritorno al Futuro: vediamo Gil che di notte corteggia Adriana, modella e amante di Picasso (una deliziosa Marion Cotillard), e di giorno – nel presente – compra su una bancarella del Lungosenna un libro di memorie della modella, dove si parla di lui. E una notte, il giovane scrittore suggerisce a Buñuel la trama de L’Angelo Sterminatore (questo potrebbe persino ricordare Troisi che millanta di aver scritto Yesterday, in Non ci resta che piangere).
Nel frattempo, di giorno Gil è sempre più strano e distante, al punto che i suoceri (anch’essi nella capitale francese, per affari) decidono di farlo seguire da un detective. La sua promessa sposa, Inez (Rachel McAdams), passa così sempre più tempo con un suo vecchio amico, incontrato per caso, ed è facile quindi immaginare la prosecuzione degli eventi.

La trovata di riportare in vita alcuni geni del XX Secolo, all’inizio anche gradevole, si rivela presto stanca e macchinosa, come si nota dall’entrata in scena di diversi personaggi, in puro stile-Bagaglino (“Sono Man Ray!”, “Piacere, Dalì!”), e decisamente insostenibile quando avviene un secondo salto temporale, e ci si ritrova a tavola con Gauguin e Degas, nel 1890, l’epoca che invece avrebbe voluto vivere Adriana.
La morale del film sembra essere questa, che a nessuno piace vivere nel suo tempo. Anche lo spettatore, probabilmente, vorrebbe tornare indietro di qualche decade, quando il vecchio Woody sfornava come adesso una pellicola all’anno, ma del calibro di Annie Hall, Manhattan, Stardust Memories, Zelig. Invece, come sembra capire Gil alla fine, tocca stare nel presente, magari rallegrandosi perché almeno stavolta manca il ridondante narratore esterno, o perché in alcune scene Rachel McAdams riesce a essere attraente quasi quanto Scarlett Johansson, musa alleniana degli ultimi anni.
Stare nel presente, o in alternativa rispolverare quei vecchi dvd.

Se ti è piaciuto quello che hai letto, perché non lo condividi?
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  

5 commenti su “Midnight in Paris

  1. Brava la mia marti. Hai reso benissimo il senso e il senno di un film che ci piace tanto e che continua anche i nostri film.. play it again woody, paly it again Marti!

  2. Son d’accordo con Martina, anche a me è piaciuto molto, sopratutto perché il personaggio di Gil è incredibilmente fedele ai propri sogni e non rinuncia ad essere sé stesso.
    Woody Allen – se in primo momento situa “l’age d’or” negli anni ’20, verso la fine del film la relativizza, facendo arrivare i personaggi nella belle epoque che è l’epoca “sognata” da Adriana – e addirittura il detective (citazione del Doinel di “Baci rubati” di Truffaut) nell’epoca del Re sole – suggerendoci che non c‘è un’epoca “giusta” dove andare – ma bisogna andare lì dove sono i nostri sogni. Metafora potente del cinema.
    E di questi tempi non è poco.

  3. arriva arriva, e sarà pure su una cosetta sofisticata. diciamo che la regista potrebbe essergli nipote, ma, almeno a misura degli ultimi film di allen, solo anagraficamente

Rispondi a Giovanni Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.