Perchè sì

Perchè no

di Federico Croce

Whiplash… a prescindere dalla conoscenza della traduzione di questa evocativa parola (“frustata”), il solo pronunciarla rende, in maniera onomatopeica, il senso tangibile di un qualcosa che si infrange e si rompe,  un contatto violento tra corpo e materia, sull’impulso potente dell’istinto, senza lasciarsi  rallentare dal tempo dell’elaborazione mentale ma senza neanche sostare nell’attesa, molto più breve di quella del pensiero, dell’emozione: tutto sembra arrivare un attimo dopo questa parola, Whiplash, e il suo effetto deflagrante non tanto su quello che succede, quanto ma sui processi attraverso cui si manifesta quello che si vede e quello che si ascolta.

Sarebbe interessante poter vedere l’omonimo cortometraggio da cui Damien Chazelle ha realizzato questa versione lunga di Whiplash, per comprendere quanto la necessità di stringatezza ed essenzialità abbia reso ancora più efficace quest’idea di cinema a “colpo di frustra” che, come una scossa elettrizzante, attraversa  un film muscolare, nevrotico, che si avvita su stesso e sulle immagini che genera in una progressiva ed entusiasmante tensione dove in realtà tutto regredisce ad uno stato primitivo, con i suoni che  strabordano dalle immagini e la natura convulsa e impressionista della musica jazz che trova il suo corrispettivo nella rappresentazione di una performance in continuo divenire, prima che di una storia con dei personaggi e una situazione. Sì, ovviamente il contesto esiste ed è anche fortemente caratterizzato, trattandosi di una di quelle rigorose ed esigenti accademie di musica newyorchesi, in cui si presenta la situazione tipo del giovane aspirante musicista, nello specifico, e non potrebbe essere altrimenti visto l’approccio fisico così assoluto che richiede lo strumento, un batterista jazz che fin dalle prime  battute intuiamo divorato dall’ambizione e dal desiderio, ma ancora acerbo, non segnato.L’archetipo narrativo  che gli si può creare intorno è quello di mettergli davanti  come nemesi il  professore intransigente che, con lacrime e sangue, lo porterà dalla mediocrità al virtuosismo, facendo uso e abuso di tutti i topos classici di questa dinamica relazionale dove la storia in sé ha a che fare più che altro con una questione di potere e di dominio, e dove ogni movimento è interpretato attraverso la scacchiera di vissuti personali, di frustrazioni suggerite più che realmente espresse tanto  per l’allievo (un padre debole che lo svaluta non accorgendosi di lui) quanto per il maestro (fu lui a portare il suo studente più talentuoso al suicidio per averlo sottoposto ad uno stress insostenibile?). In realtà a Chazelle tutto questo interessa molto relativamente e, forse, anche agli spettatori a cui si rivolge e che sanno godere del piacere un po’ perverso del gioco al massacro che propone, affermando consensualmente, in questo accordo tacito sancito da frenetici colpi di montaggio e da improvvisi cambi di temperatura emotiva  più che da esplicativi monologhi o descrizioni dettagliate di ambienti e circostanze, una stanchezza  nell’analizzare e capire le motivazioni psicologiche, culturali o sociali per cui un personaggio compie una determinata azione. C’è la volontà  di rifiutare la comprensione e l’accettazione  di quello che succede, una forma di controllo rassicurante, che esclude il pericolo di dover chiamare ed essere chiamati in causa per altri canali, quello che invece accade quando si ascolta la rivisitazione in chiave jazz di un brano della tradizione: riconosciamo il tema principale, ma sono gli innesti di variazioni e improvvisazioni che creano deviazioni e sbandamenti nelle nostre memorie sensoriali di quella musica divenuta ora familiare e misteriosa insieme.Whiplash ha l’ambizione alta e spregiudicata, come quella dei due duellanti il cui reciproco combattimento si sveste della riconoscibilissima armatura di gioco sadomasochistico per diventare una furiosa gara di supremazia fino al colpo di piatto finale o all’ultima goccia di sudore, di farsi sintesi del concetto di cinema performativo con cui la cinematografia americana, l’indipendente quanto quella mainstream (definizioni tra l’altro ormai facilmente sovrapponibili), sembra eseguire una rituale celebrazione della propria morte in attesa di  concepire  una nuova rinascita. Il messaggio è chiaro, disperato e terrificante: bisogna mettersi in scena, rappresentarsi continuamente, lasciare un segno  tangibile ed evidente (il sangue,il sudore), non è dato essere mediocri, sconfitti, rassegnati e le ferite e gli ammaccamenti che verranno riportati su un palcoscenico trasfigurato come un campo di battaglia, saranno solo testimonianza di una volontà di sopravvivenza, che però è sempre, e comunque, espressione di un’ostinazione ottusa dove non c’è neanche il tempo del trionfo, come avviene nel non finale di  Whiplash, perché la musica deve continuare. E non parliamo dell’amaro, romantico The show must go on: se  ci si ferma, se si smette di rappresentarsi  per sentire e pensare, si tocca la propria umanità e quindi la propria mortalità. E nulla meglio di un film può raccontare questo.
Il cinema è la morte al lavoro ogni 24 fotogrammi  al secondo”  (J.Cocteau).

di Stefano Maschietti

Sarà il diffuso bisogno di ducetti da talent show (in politica ci accontentiamo oramai di replicanti oliati dalla cricca di turno), ma si resta stupiti a sentir giudicare Whiplash uno dei migliori film sulla musica e sul Jazz degli ultimi 10 anni. Reggerebbe il confronto con il commovente Sugar man? Tanto quest’ultimo è una delicata elegia sulla rinuncia al successo, quanto Whiplash un epos ruvido ma chiassoso sul tagliente e strenuo rapporto tra un maestro e un allievo logorati dall’ansia performativa, un film dove l’indagine sul misterioso problema dell’ispirazione e della sua possibile trasmissione è decisamente mancata.

L’amore dell’allievo per un maestro esplode certo anche da un represso antagonismo, l’ammirazione che sublima il sacrificio in concentrazione maniacale è sì un fortunato atto mancato di invidia parricida, o persino di gelosia ambivalente che scivola in involontario masochismo, ma in questo film assistiamo alla crassa militarizzazione della vocazione musicale.

Il rinomato conservatorio Schaffer (la Julliard Scholl della realtà) sembra una caserma aziendale dove improvvisati candidati (venditori di sé stessi) inoculano, l’uno contro l’altro, un’improbabile avidità musicale sferzati dai latrati di un dobermann. I batteristi come botoli rabbiosi sfamati a crudo, l’uno accanto all’altro a sperare l’errore di chi ti ha sottratto il posto e relegato a giraspartito, gli altri strumentisti a testa bassa, intimiditi dagli urli di un manager orchestrale ossessionato non dai tempi musicali, dall’intensità emotiva, dal colore sonoro o dallo swing, ma dalla precisione metallica del metronomo. Sembrano chiedersi, come tanti ricattati del precariato: “se sopportiamo tali angherie, ce la faremo?”

Era cominciato bene il film, con una carrellata frontale tipo Shining a riprendere da lontano le prime percussioni di Andrew, che paiono voler sottrarre i suoni dallo stato di torpore della materia inarticolata. Poi, però, l’incursione del despota Fletcher (J.K. Simmons), testa d’uovo rivestito in aderente completo nero su maglietta nera, un clerico devoto alla musica: la sua pelle asciutta e lucida aderisce alle torsioni della muscolatura facciale, ogni conseguente fonazione è imperlata esibizione di fanatismo ascetico. Dovrebbe insomma rivelarsi, questo tipo, il Karajan del Jazz newyorkese, e invece sputa fiele come la caricatura fuoriposto dell’istruttore Hartman di Full metal Jacket: un turpiloquio umiliante di lazzi, mazzi e ciucci. Roba da talent show coi giudici pronti a spingere il fatale pulsante dell’eliminazione.

Nella scena del ritrovo e della possibile tregua tra incompresi, il maestro, per una sera delicato pianista nel night dove si è ritirato dopo la disciplinare espulsione dal conservatorio, si giustifica col suo pupillo, “suonato” come un pugile avido di procurarsi le stimmate dopo abusi onanistici delle bacchette: gli sussurra che Charlie Parker non sarebbe diventato Bird se il suo mentore Jo Jones non gli avesse tirato un piatto dopo una deludente jam-session. Quindi, per tale personal trainer e mind-builder travestito da priore che giustifica l’oltranza coartata e anaffettiva come sola via al genio, le intese musicali sarebbero non la conflittuale gestazione di sensibilità fragili, ma match di pugilato, che è (stato) poi un’arte molto più nobile e sofferta di quanto non appaia a chi lo degrada ad improbabile termine di paragone dell’incontro musicale, quasi Rocky fosse un batterista e un batterista potesse allenarsi come Rocky.

Acidamente convinto di non riuscire a passare dal Jazz alla Boxe, a questo perplesso (e incoerente) spettatore è andato però di passare, a fine film, dal Jazz alla Moda. Gli sono così tornate in mente alcune scene di un recente film sì in grado di sondare le profonde eccitabilità paranoidi del genio fragile, disadattato creatore di disegni lievi e illusioni vitali: Yves Saint Laurent. Ecco, quello è un film sulla natura demoniaca e dissociante dell’ispirazione. Whiplash è un film forzato e distorto dal bisogno del regista Damien Chazelle di trasfigurare la personale frustrazione di batterista mancato succube di un maestro aguzzino e suo malgrado in grado di suscitargli una diversa vocazione, quella di regista appunto.

 

 

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0 commenti su “Whiplash

  1. in effetti la recensione è proprio fica! mi associo ai complimenti (non ho visto il film però, e mi sa che manco andrò a vederlo, a sto punto, mi hai convinto)

  2. condotta pienamente azzeccata, per aver visto dico.. Meglio ririvedere Sugar Man, rivedere all’ennesima FMJ, vedere, se non ri, YSL

  3. Da spettatore, in adesione alla raffinatissima dello amico Stefano, dico NO a wl, ma sì a YSL, sìssì a SugarMan, sìsI’SI’a FMJ.
    Di Shining, direi nonsaprei nonsaprei nonsaprei nonsaprei nonsaprei ..

  4. Non ho visto il film, ma intanto ho trovato davvero di grande interesse l’intuizione sul legame mortale tra vita/sopravvivenza e performance

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