Scrivo di questo film con molta riluttanza.

E’ un testo difficile.

Non per il film che a suo modo è perfetto, centra il bersaglio. Ma per chi legge. I pensieri che qui traccerò potranno essere compresi appieno solo da chi ha già provato almeno una volta, anche una sola dannata volta, a cimentarsi con la creazione artistica. Quella seria. O con la creazione tout court. Perché il film parla principalmente di questo. Ora, chiedete a voi stessi: “Ma io ho mai provato a creare qualcosa? Qualcosa di bello, di innovativo, di affascinante, di importante per gli altri uomini?”. Sono mai entrato in quel tunnel tremendo, affascinante, vorticoso e conturbante? Non dico che l’abbiate fatta, ma che anche solo ci abbiate provato seriamente, in maniera fondamentale, per riuscirci insomma. O vivete anche voi rintanati in una struttura, al caldo? Una struttura che vi dà un “posticino”, vi rifocilla, vi dà una identità, una riconoscibilità e che vi guida? Che vi dice chi essere e contemporaneamente dice anche agli altri umani chi siete?

Se non avete mai provato a creare, se non vi siete mai messi in gioco nel profondo, dubito che capiate quindi l’essenza di quanto segue. Ma, se riuscirete a reggere fino alla fine, troverete alcuni esempi e dimostrazioni di come la gabbia in cui vivete comodamente vi tenga anche inchiodati. Uno spiraglio, uno solo. Che credo vi scorticherà. Per cui ― cuori $$deboli ― abbandonate immediatamente la lettura. Ci sono altri articoli, anche in questo sito, molto migliori. Tanti bla bla, giochi di parole, mirabolanti evacuazioni paralinguistiche di superficie – che non dicono nulla, ma lo dicono molto meglio di me. Ma soprattutto che non vi richiedono nulla. Il nulla, appunto.

Dunque, cosa c’è di meglio di una cittadina della provincia francese, l’antonomasia del convenzionalismo, per mostrare come la struttura si sia impossessata degli umani e li faccia agire? Abbiamo una suocera, Madame Angellier, con il figlio Gustave al fronte e la nuora parcheggiata dentro casa “sua”. E il nemico alla porta. E che si fa? Si ascolta il Generale De Gaulle alla radio, e subito dopo si va a riscuotere l’affitto dai mezzadri malevoli, sempre restii nel pagare, ma prodighi nel comprare la calza di seta sbirciata appena indosso alla figlia. Così la vita scorre, anche durante la peggiore delle guerre possibili. Andando dietro alle cose, sopravvivendo. Ma perché Madame, tutta luoghi comuni e merletti, isterismi e cattiverie, fa quello che fa? Non c’è nessun perché, è la struttura che opera, inopinatamente. Perché “così fa” avrebbe detto Martin Heidegger.

Vale a dire: perché lei aderisce perfettamente ad uno dei modelli messi a disposizione dalla “tradizione” in cui lei si è infilata, e si è rintanata. E’ il Rito. Capire questo è cruciale per comprendere uno dei tanti finali del film. Quanto vale la nuora? Nulla. E perché mai quella sconosciuta le è entrata dentro casa diventando sua nuora? Per avidità: per possedere la terra! ― è la risposta che si dà Madame. Ma a sentire l’altra, Lucile, mentre ne parla a tavola con la suocera, è chiaro: non c’è nessun perché. O meglio, è ancora una volta la struttura a dettare le regole: il padre ― sul letto di morte ― le ha imposto di sposare un brav’uomo, Gustave. Capite? Uno sconosciuto, ma un brav’uomo. Uno visto solo un paio di volte, che diventa immediatamente tuo marito, la persona con la quale trascorrerai tutta la tua esistenza sul pianeta. Che si infilerà nel tuo letto, che penetrerà nelle tue carni, che ti fa generare altri umani di cui ti dovrai per forza ―  o per istinto ― “prendere cura”. Perché? Non c’è, nuovamente, alcuna risposta sensata.

Dunque, la tranquilla, bigotta, tradizionale cittadina di Bussy viene sommersa dalla marea degli sfollati da Parigi, incalzati dal nemico vincente ed arrogante. Che appena arriva mette subito le cose in chiaro: voi avete perso, noi abbiamo vinto. Voi ora fate tutto quello che diciamo noi, e ci consegnate tutte le vostre armi. Noi comandiamo, voi obbedite. Senza eccezione alcuna. Ancora, è la struttura a dettare legge. E come scolio, irrigidisce le membrane sociali, prima perfino disponibili anche ad un certo moderato livello di osmosi. Ora non più: tu sei tedesco, quindi sei il nemico, il male. Io sono francese, e quindi tutti i francesi sono il bene. Io ti combatto. Tu mi combatti. E’ la struttura che ti dice a cosa devi credere, per cosa devi obbedire e combattere, per cosa valga la pena di morire. Ed il film ti fa sentire, percepire, la struttura come qualcosa di solito, abituale, di tiepido ed avvolgente. La sceneggiatura (mi raccomando, lasciate perdere il libro da cui è tratta, il film è sempre un assoluto) sottilmente disegna simmetrie fra due famiglie, la più ricca di Madame, e la più povera del paese, l’amore cortese nell’una e l’amore porcino nell’altra.

Bene. Ma cosa accade se scopri che il tedesco occupante ― e che tu ospiti obbligatoriamente in casa tua ― lo è per puro caso? E che è una persona migliore, molto migliore, di tutti i francesi con cui hai avuto a che fare per tutta la vita, e che sono in realtà delle canaglie ― parlanti però la tua stessa? Cosa accade se quel tedesco si rende conto che lui stesso è agito dalla struttura ― tanto che quando questa si smaglia per un attimo, e lui si ritrova fuggiasco con Lucile al riparo dall’arcigna suocera, riflette e dice: “Ma non sono io quello di cui si dovrebbe avere paura?” ― e comprende che la francese che ha davanti, questa donna meravigliosa, non è umana, ma è l’unico essere ideale con il quale lui si senta di condividere qualcosa sul pianeta? Lì la struttura si sgretola, scricchiola rumorosamente come un bastimento contorto dai marosi che ne sfibrano la chiglia, fino quasi a strapparla dal ponte. E se i due vengono richiamati alla lotta dalla giustapposizione dei fatti, lei che nasconde un ribelle, lui che lo deve cercare ed uccidere per ordine superiore, e che sa che è proprio lei a nasconderlo e proteggerlo, cosa succederà? La struttura pone gli umani in un angolo, senza via di uscita. In un vicolo cieco. E si deve obbedirle. E, quand’è così in Zugzwang qualcuno ci deve rimettere la pelle, necessariamente. E’ qui che cade la goccia di ambrosia. E’ qui che si accende la luce che dovrebbe illuminare lo spettatore ― a patto che non sia un critico cinematografico, anche lui al caldo nel suo posticino gratuito.

Entra in scena l’Arte. Non è un caso. La struttura non cede per un dettaglio. Cede solo quando l’onda d’urto, lanciata contro la sua muraglia grigia con la foga energetica della vita, dell’esistenza che reclama il proprio spazio, squarcia l’argine e dilaga nella pianura. L’ufficiale tedesco, Bruno von Falk, ospite comandato della famiglia Angellier, è in realtà un musicista. Un compositore. Un creatore. Uno che ― come sa bene chi ci è passato ― è “rapito” e “guidato” da uno spirito che alberga dentro di lui. Un artista è quasi più “agito” di un umano. E non a caso parlo di “umano” (e, per esacerbare il concetto, potreste sostituire questo termine con quello di “umanoide”, così capireste meglio il sotto-testo) e non di uomo. Perché il punto fondamentale, cui il film giunge (a che a pochi sciaguratamente è dato di capire) è che ― è l’Arte che fa l’uomo, e non viceversa. E’ attraverso la dimensione artistica che diventiamo uomini, membri a pieno titolo di quell’umanità che sappiamo riconoscere in noi stessi, e poi negli altri. Un risveglio, al divino. Gli umani sono tali per genere e specie, “perché lo nacquero” direbbe Totò; ma questo è solo lo spunto, l’inizio. Poi bisogna diventare uomini, e non rimanere semplici “Mensch”.

Non a caso Bruno von-, tentando un primo minimale approccio con Lucile, le chiede di avere un rapporto quanto meno “decente”, tradotto in italiano con “rispettarsi”.  No, è di più. Lucile ascolta la musica provenire dalla stanza dell’ufficiale ospite, una musica che la coinvolge e la rapisce, ma che lei non conosce. Fino a che non capisce che proprio Bruno von- ne è l’autore. Che è lui l’artista, sotto la gabbia rappresentata dall’uniforme della Wehrmacht. Già: uni-forme. La struttura. Che obbliga Bruno a dare controvoglia la caccia al ribelle comunista, il cui unico torto è in realtà il suo sacro diritto a ribellarsi contro un altro ufficialetto ospite, che gli insidia la moglie. E la mancata cattura del quale gli costa il comando del plotone di esecuzione che “giustizia” il Visconte-sindaco, per rappresaglia. Tutte azioni, queste, inscritte nella “situazione” (per non ripetere la stessa parola fino alla noia).

In tutto questo, e soprattutto dopo l’insegnamento di Immanuel Kant, trovare l’umano nell’uomo è perfino un problema. Lo vediamo come uno scimmione goffo, in preda ai suoi istinti peggiori, con un languore per il pelo, sempre in cerca di un qualche tornaconto materiale. Un “guadagno”. Un “utile”. Qualcosa da accaparrare, da buttare dentro, da mangiare. Da profanare. Questo è Mensch.

Per diventare uomini, cerchiamo di innalzarci dal rango di semplici umani, e cerchiamo una via. Attraverso l’Arte. Dotati del coraggio di creare. Con il coraggio di essere. E non solo con l’arroganza di stare qui, perché ci stiamo.

Mors tua, vita mea. E’ il problema del valore. Mors tua: le lettere del villaggio, le delazioni al potere. Un tragico fatto reale, che la miseria della storia francese ha conosciuto fin troppo bene, e fin troppo da vicino: scrivo la lettera anonima, incolpo di qualsiasi male il mio vicino, il salumiere mio concorrente, denuncio l’ebreo anche dove non c’è, perché il nazista lo uccida e mi faccia un favore. Mento per il guadagno. Mento per l’utile. Mento per avere. Vita Mea. Prova ne sia che quando Bruno von- fa quello che il suo essere più intimo odia fare, uccidere il Visconte innocente ed inerme, egli stesso si lascia andare, rientra in quell’umano orrendo, nel fango primordiale, in quel grossier che lo svilisce e lo accomuna alle truppe rozze e volgari che bivaccano nella villa nobiliare, dove Lucile ― la luce, appunto ―lo va a recuperare per riportarlo alla vita e a se stesso. Il valore non ha una nazione. Non ha una razza. Per il Valore, non esistono gli Ariani. Come non esistono i Crociati o gli Islamici. E non esistono nemmeno gli Ebrei. Il valore ha a che fare con altre cose. Principalmente con la creazione, con la poiesis di cui l’Arte è una parte importante. Ma ― comprendo ― queste sono solo parole per chi le legge superficialmente dal suo cantuccio al riparo nella struttura. Scivolano, non mordono. Non significano nulla. Di che stiamo parlando? C’è una bella scena nel film, una metafora, che illustra tutto quello che sto dicendo. I tedeschi stanno ripartendo, hanno lasciato le case occupate. Lucile, che ora è una donna completa, ha capito come uscire dalla gabbia e quindi dispone del coraggio che il patrimonio primordiale dell’uomo, e si accinge ad accompagnare il ribelle clandestino in una casa a Parigi, dove questi potrà ricongiungersi alla Resistenza. Con grande meraviglia (e infine sì: ammirazione!) da parte della suocera-Madame, ammirata per quella insospettata e inusitata forza d’animo che la nuora dimostra. Bruno von- le ha lasciato sul pianoforte di casa la partitura incompiuta della sua creazione, una “suite francese”. L’arte è lì, per lei. E’ la chiave. Lei non legge la partitura, non la suona. Lei la scorre con le dita. La accarezza, come se accarezzasse il suo volto, la nuca del suo uomo. Vi entra in contatto, la assorbe attraverso il tatto. La sugge. La fa penetrare dentro di lei, vi si imbeve. Come una sensitiva, come una cieca che legga in braille. Ottima metafora. La partitura non parla più alla struttura, parla piuttosto all’uomo e alla donna che sono riusciti a superare il limite dell’umano(ide). E’ da qui che viene il coraggio, l’ardire “insensato” per il popolo. Così fanno quelli che noi chiamiamo “eroi”. Sono posseduti dal loro demone. Ma non è un demone negativo. Così ce lo fa vedere la nostra gabbia, che ha valori preconfezionati e decisi da lei.

Quando l’uomo crea, non soltanto cose artistiche, ma anche nuovi campi del sapere, oppure invenzioni, allora dapprima deve tener conto delle regole, delle convenzioni, delle leggi, delle tradizioni: ma poi deve prendere tutto questo bagaglio, questo “fardello” che lo inchioderebbe a terra, e gettarselo dietro le spalle. Deve ridefinire lui le regole della sua creazione. Si deve liberare di tutto, per poter essere un creatore. E diventa libero. E’ questa la tensione vitale, lo sforzo dinamico e “superumano” cui facevo riferimento all’inizio. Lo sforzo immane di fare tutte le cose che vanno fatte, anche quelle dure e difficili per cui ti tremano le gambe e i polsi, per dare vita alla tua creazione. Avendo come unica guida te stesso. Sforzo ― grazie a Dio ― è contagioso. Permea coloro con cui si entra in contatto. Diventa un attrattore.

E’ per questo che l’arte è uno dei veicoli principali per diventare uomini, per non essere più semplicemente umani. Perché ci obbliga ad infrangere la struttura. A vedere il mondo sotto una luce del tutto diversa, del tutto nuova. Sub specie aeternitatis. Nel film, il contagio è rappresentato proprio da Madame Angellier, che scopriamo alla fine intenta a salvare e proteggere altre vite umane, con suo grave rischio, una volta gettata alle spalle l’inutile scorza.

E adesso, come promesso, lo scorticamento finale. Per chi ha retto e pensa di reggere ancora. Provate a pensare all’Unione Europea: belle parole, bella idea, il petto si gonfia di orgoglio, il respiro diventa pesante: una forte emozione. La nostra nuova Patria che ci mette al riparo dalle Guerre. Mai più Nazismi, mai più Barbarie. Un Eldorado. Proviamo ora a pensare ai Greci, a come l’Unione Europea nel suo complesso ci presenta i Greci. Un popolo piccolissimo, guidato da piccoli saprofiti corrotti per decine e decine di anni, con il consenso dell’Occidente. Chi ha la mia età si ricorda, per averla vissuta, la dittatura feroce dei colonnelli greci. Qui, ad un passo da casa. Nel cuore della democrazia. Nel cuore dell’Europa. Una cosa incredibile, come è incredibile quello che sta attraversando questo popolo oggi. Dunque i Greci. Sono corrotti? I loro dirigenti si, e piano piano hanno infettato anche il corpo sociale, c’è da crederlo. Hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità? Forse, forse anche tanto. Ma la gente greca come voi e come me, che rasentano la sussistenza o poco più, non è quella che ha creato il disastro. Il disastro sono i politici, i banchieri e i finanziari corrotti. Come da noi. Ma questi “tipi” pullulano nei saloni nell’Unione europea e anzi la guidano. Guidano le grandi banche speculative, che hanno determinato immani disastri con capitali inesistenti rivendendo 10, 20, 100 volte gli stessi contratti di assicurazione, creando enormi bolle speculative che alla fine sono implose, facendo collassare tutto. Sono loro. Sono gli stessi che oggi vanno a vedere i compiti dei Greci, con la matitina rossa e blu. Umani di cui sono piene anche le galere tedesche. Ma non quelle greche ed italiane. Come ci vengono presentati dunque i Greci? Come dei buoni a nulla, dei nullafacenti capaci solo di succhiare i soldi dalle sane forze produttive europee e tedesche. E come venivano presentati gli ebrei all’epoca del nostro film? Nella stessissima maniera! Sono i greci che hanno depauperato il prestito che abbiamo fatto loro, per cui l’Italia ha contribuito con 40 miliardi di euro. Ergo: sono loro che ci stanno affamando. Delle sanguisughe. E noi dovremmo piangere per loro? Che si fottano! Che è lo stesso sentimento che circolava fra gli ariani tedeschi sotto Hitler nei confronti degli ebrei. Uguale uguale. E’ facile con il senno di poi, quando ve lo raccontano di altri. Ma quando vi ci trovate dentro, in prima persona, e dovete decidere, riuscite almeno a capire cosa vi stanno facendo credere? E alla constatazione di Tsipras alla BCE: “Ho il 50% di disoccupati, la mia gente è alla fame” sapete quale è la risposta? “Si, ma devi restituirci il debito, devi ridarci i nostri soldi”.  I soldi di chi?!? E quale è la logica? Nessuna. Il nulla. La struttura. Gli umani canaglie. Voi provate ad andare adesso in Grecia, e vi trovate nel bel mezzo di una tragedia, reale, densa, atroce. E l’Europa? “Non è colpa sua, sono i Greci hanno truccato i conti”. E quindi gliela dobbiamo far pagare.

Quale dovrebbe essere la conseguenza? Silenzio. Siamo alla follia totale. Ci siamo immersi, e ne facciamo parte anche noi. Anche emotivamente. E questa è la conseguenza di aver messo l’Europa in mano a dei banchieri e dei burocrati, gente che in gran parte non ha superato quello stadio di evoluzione interiore che gli psicologi chiamano “fase anale”, caratterizzata da incosciente ferocia verso gli altri ed attaccamento smisurato al possesso materiale. Feroci bambini idioti, appunto, che comandano l’Europa e stanno guidando 600 milioni di individui. Ma che alle domande più elementari, sulla vita e sulla morte dei loro popoli, non sanno cosa rispondere. E a nulla vale che la signora Merkel, appena spifferato un sospetto che la Grecia potesse uscire dall’Euro, abbia mandato in tilt le borse di mezzo mondo con la conseguente perdita di 200 miliardi in un colpo solo ― in un giorno solo! Su un debito complessivo dei Greci di 350 miliardi. Riuscite a capire? E lei non avrebbe nessuna responsabilità? Se fosse stata zitta per ben due volte, la borsa avrebbe potuto appianare il debito greco con le evitate perdite, e dare loro ancora indietro miliardi alla Grecia, capite? Ora, è colpa vostra, è colpa mia? No, è la struttura che ci inchioda tutti, e che ci fa credere impossibile qualsiasi altra soluzione. E che ci leva il coraggio di dire che oggi ai greci ― come domani agli italiani e agli spagnoli ― “conviene” o “converrebbe” fare una rivoluzione. Ma solo passando attraverso l’arte. Altrimenti ci ritroveremmo Tsipras ad angariare le Isolde teutoniche, con mera inversione dei ruoli. E ora alzatevi in piedi ed uscite dalla sala…

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7 commenti su “UNA LUCE DALLA “SUITE FRANCESE” in sala da Giovedì 12 marzo

  1. Perché voglio commentare quello che hai scritto? Non ho letto il libro, ma ne ho letti molti che hanno trattato questi temi, non ho visto il film, ma ho visto altri film che mi hanno fatto stupire, che mi hanno spezzato il fiato per la loro bellezza, la loro poesia, per le loro magie potenti, ho letto anche molte recensioni bellissime e poetiche, proprio qui su schermaglie, ma non le ho percepite come percepisco adesso la tua. Già tu parli proprio a me, descrivi la mia nicchia, la mia gabbia, la mia incapacità e forse anche la mia cattiveria. È incredibile io la penso come te, sono d’accordo con le cose che dici, TUTTE, nessuna esclusa. Eppure sono l’umanoide sul quale rovesci la tua rabbia. Strana sensazione, o forse no, forse la mia gabbia personale è ammantata di ragnatele ideologiche, finzioni, menzogne. Le mie convinzioni sono forti e radicate e il mio sentire onesto, il mio impegno sincero. Ma non creo, non mi cimento con la creazione artistica, quella seria. Perché mi devo sentire uno stronzo umanoide allora? L’hai detto tu, non c’è perchè.

  2. Essere una persona decente è già un privilegio. Per te e per le persone con cui condividi.

    Ma forse osare, al momento giusto, non sarebbe un male. Forse.

  3. Mi permetto di intervenire, signore, anche se non so chi lei sia e non scadrei in nessun modo nella facile, un po’ misera trappola del giudicare quello che fa o che dice; ma si scrive e si legge qui all’interno di uno spazio pubblico che ha per ontologia incerte regole etiche consegnate, forse da una direzione volutamente democratica e non invasiva nelle mani di ciascuno dei collaboratori che alimentano questo luogo con personali contributi, sinceri e appassionati. Nella responsabilità che una qualsiasi consegna di sapere dovrebbe prevedere per chi scrive e chi legge.
    Le rigiro la domanda: Lei, ha mai provato a creare qualcosa? Qualcosa di bello, di innovativo, di affascinante, di importante per gli altri uomini?
    Io glielo auguro, ma soprattutto le auguro di averli incontrati davvero questi “altri” di cui pochissimo sappiamo ma che provano come lei probabilmente a vivere dignitosamente la loro vita e che forse un vero “creatore” incoraggerebbe alla Bellezza invece di escluderli

  4. franceschi tedeschi greci ebrei sotto la lente/di un creatore sedicente/meno scorticante che delirante/nel dire il vero/semplicemente

  5. ieri sono andato alla manifestazione di Coalizione sociale, dove ho parlato con un mio amico molto caro, meravigliosa persona a cui è morta pochi giorni fa la compagna di una vita, poi al cinema a vedere Suite francese.
    un concentrato di temi, di emozioni, di colori (c’era un forte vento e sole). ho riletto la recensione, l’ho trovata bella, ho trovato belli anche la vita, l’amore, l’arte, l’amicizia. Fabrizio ha ragione però, è in agguato la bestia feroce, e non è solo cieca furia divoratrice, ma anche raffinata crudeltà, intelligenza perversa che costruisce lager mostruosi. però questi inferni non sono le gabbie entro le quali la maggior parte di noi vive ed opera; le malizie, l’invidia, la vanità. la grettezza, siamo noi. altra cosa è la volontà di dominio, di annientamento, la pulsione di morte.

  6. Grazie del tuo riscontro, Enzo. E’ un piacere leggere i tuoi commenti. E poi ti capisco: gli altri commenti faccio fatica a comprenderli, seriamente. Limite sicuramente mio. — Per quanto ci raccorti: temo che Landini arrivi con una quarantina d’anni di ritardo al suo appuntamento con la storia. Posso sicuramente sbagliarmi: ma se il sindacato si fosse distaccato dal “Partito-Guida” quando la società era in subbuglio e le scommesse di vita personali e collettive entravano nel crogiolo di quella ribellione molto vicina all’atto estetico puro, forse qualcosa sarebbe cambiato in questo Paese. Invece ricordo Luciano Lama mandato con le falangi di edili all’interno dell’Università, a far sentire lo scarpone chiodato dei lavoratori sul collo dei “ribelli” figli di papà. Quel giorno fu probabilmente il suicidio della sinistra. Per cui oggi, anche solo citare Karl Marx, suona offensivo. E’ diventato un tabù. Altra follia. Mi permetto di rammentarti una frasetta che Marx prese dagli Atti degli Apostoli, e che mise come fine, come obiettivo alla sua azione: “In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!” (cfr.: Atti degli Apostoli, At 4, 35).
    Per questo oggi Karl Mark viene citato solo… da Papa Francesco. Gli altri, i “saggi”, parlano solo più di percentuali.

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