I luoghi del cinema horror arricchiscono la mappa del loro mondo, già piuttosto nutrita negli ultimi anni in particolare dal cinema latino (spagnolo e sudamericano) e da quello orientale, di un’ulteriore tappa: una variante oscura e minacciosa di quell’orfanotrofio che concettualmente nascerebbe come rifugio e accoglienza dei bambini abbandonati, ma che ha il potere di diventare catalizzatore del dolore e a volte della crudeltà che si nasconde dietro un abbandono, guardando oltre un’infanzia negata e mutilata. E del resto proprio il cinema latino sembra aver sviluppato una particolare sensibilità e attenzione all’ascolto del mondo dell’infanzia, servendosi spesso della metafora della fiaba horror come riflesso del sopruso e della violenza degli adulti.

Patrocinatore e demiurgo di questa opera prima di Juan Antonio Bayona è, infatti, quel Guillermo Del Toro che per parlare degli orrori della Spagna franchista si è servito degli incubi ad occhi aperti dei suoi piccoli protagonisti, alternando il punto di vista maschile del Carlos de La spina del diavolo a quello femminile dell’Ofelia de Il labirinto del Fauno. Due film gemelli in cui le paure della morte, della sofferenza, del lutto delle persone amate (in particolare il padre per Carlos e la madre per Ofelia) vengono elaborate e superate attraverso la forza dell’immaginazione: un dono dello sguardo che tiene la mdp sempre sulla linea di confine della realtà o meglio della sua percezione, ora oggettiva ora soggettiva. Bayona che, per sua stessa ammissione, ha inseguito per anni Del Toro affinché diventasse il suo mentore riprende questa modalità di articolare tra di loro il racconto e la visione e, nel caso de La spina del diavolo, si appropria anche dell’idea dell’orfanotrofio come microcosmo contenitore esasperante dei dilaganti conflitti esterni, abbandonando, però, la dimensione storica in favore di un contesto più sociale come il problema del rifiuto della società verso i bambini portatori di handicap, la tendenza a nasconderli e a emarginarli.

L’altra cosa che cambia è il punto di vista che non è più quello di un bambino, ma di un adulto seppur con un’infanzia dal peso assolutamente rilevante come la Laura protagonista di The Orphanage che torna nella casa dove crebbe da ragazzina prima di essere adottata con l’intenzione di ristrutturala e trasformarla in una casa famiglia. Porta con sé il marito medico e il figlio, anch’egli adottato, che diventerà, tanto per lo sguardo di Laura quanto per quello di Bayona, una sorta di anfitrione in miniatura che introduce la donna e gli spettatori con lei a intuire, sentire e vedere diversamente quel luogo sul quale è impossibile costruire un qualsiasi progetto futuro senza aver prima scrostato tutti gli strati che ricoprono ancora le pareti, come suggeriscono gli elaborati titoli di testa, e senza essere tornati al nucleo anche oscuro che si trova nei sotterranei. La metafora in questo caso si fa esplicita, quasi didascalica, con l’utilizzo di stanze recondite, cassapanche nascoste, armadi, sottoscala e persino grotte e l’idea che Laura debba scendere ancora un po’ sotto la superficie del suo inconscio fino a compiere l’ultimo salto mortale è attesa quando, come nel consolatorio e un po’ posticcio lieto fine, non temuta.

 

Il problema di The Orphanage sta forse nel voler far sentire e percepire senza poter fare a meno di spiegare e dimostrare. E l’apprezzabile scelta di non ricorrere all’uso di effetti digitali viene però contraddetta da un abuso di convenzioni del cinema dell’orrore come scale scricchiolanti, il vento che soffia, finestre che si rompono e una colonna sonora con sviolinate alla Hitchicock francamente un po’ stucchevoli. Il talento di Bayona che è pur sempre un esordiente sta nel controllo della materia, nella capacità che ha di muoversi tra il piano della realtà e quello dell’immaginazione con una fluidità opposta alle forzature del racconto, una regia vigorosa, decisa, determinata a volte fino alla crudezza, che sa filmare il disfacimento dei corpi reali come la natura inafferrabile delle ombre della mente. In questo senso è davvero magistrale la realizzazione della sequenza della seduta spiritica da parte della medium interpretata da Geraldine Chaplin (per Bayona citazione di Cria Cuervos di Carlos Saura, film epocale sull’immaginazione “turbata” dell’infanzia) e chiamata da Laura per ritrovare il figlio scomparso e probabilmente rapito dalle presenze della casa. L’idea di far osservare l’operato della medium attraverso delle apparecchiature audio e video mantiene in vita una tensione tra ciò che non possiamo vedere, in quanto sui monitor appare semplicemente la Chaplin posseduta che si aggira per le stanze, e quello che possiamo ascoltare, la voce della stessa Chaplin, che racconta le immagini che le si manifestano davanti, interrotta dai suoni e dalle voci confuse emerse dal passato dell’orfanotrofio. E sempre al personaggio della medium Bayona fa pronunciare una battuta significativa in risposta alla necessità di Laura di capire, dicendole che “bisogna credere prima di poter vedere”.

Lo scollamento tra sceneggiatura e regia, tra convenzioni del genere e personale libertà autoriale del regista, tra la necessità di far tornare tutti i nodi al pettine e il lasciare lo spazio per l’ambiguità, il mistero, il disorientamento tra i piani della narrazione e della visione, si spiega proprio attraverso i punti del “credere”, così fondamentale in una cultura profondamente cattolica e  superstiziosa come quella spagnola, e del “vedere”, l’azione primaria compiuta da chi fa cinema. Bayona leggendo la sceneggiatura deve aver creduto a Laura e deve essere partito da quel credo per immaginare e poi materializzare il suo mondo, con la razionalità e la logica che ogni tanto cercavano di spezzare quel monologo interiore e dare alla realtà tutta la sua parvenza  di miseria  e a volte di orrore.

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3 commenti su “The Orphanage

  1. la recensione è molto bella ma… mannaggia, perché hai accennato al “lieto fine” ?! ARGHHH! non si fa, no no!

  2. Hai ragione non si fa….diciamo che è stata una piccola vendetta perchè un pochino ho “rosicato” :)!

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