Si è da poco chiusa la prima edizione del Festival del Documentario Narrativo organizzato dalla studiosa e documentarista Giovanna Taviani nell’isola di Salina (21/23 settembre). Tre giorni di visioni intense, discussioni serrate, appuntamenti che vanno ben oltre il giorno dopo e a cui hanno partecipato, sempre più numerosi, anche gli abitanti dell’isola. Un’occasione colta (come quelle piogge che in alcune parti del mondo seminano fiori nel deserto) che speriamo possa diventare pratica costante di confronto.

La “bottega documentaria” che si è vista agire nei luoghi del festival è decisamente uno spazio vivo, che rischia e prende posizione, puntando l’obiettivo tanto sulla necessità di sperimentare nuovi linguaggi, quanto sull’imprescindibilità di rinvenire un’urgenza espressiva nascente da un rinnovato confronto con la realtà. Roberto Saviano, intervenuto alla premiazione, è un fiume con argini resistenti che mette in evidenza esemplare le spinte che portano all’espressione: “Esiste l’inferno e la bellezza, vorrei rimanere fedele ad entrambi”, dice citando Albert Camus. Entrare dentro il ventre grasso del problema in una specie di mimesi, dove la realtà – vissuta oltre che osservata – viene poi trasfigurata in un racconto. Una sorta di sublimazione ma terrena, tutta carne e sangue. Saviano parla di sporcare il romanzo con la realtà, e non il contrario: un’affermazione onesta e controcorrente, che riporta nella giusta prospettiva il soggetto autore e il suo bisogno di espressione. E significativo, forse, è il fatto che Saviano si sia infiltrato nel “problema” per poi tradirlo. Quasi un eroe maledetto, che sembra portare inciso nello sguardo, la ferita della contraddizione.

Due pesci si incontrano, si perdono, si ritrovano. In mezzo le prove esemplari che un amore deve superare per essere tale. Un mare che è un acquario e un documentarista che è un regista: Roberto Rossellini, che nella danza grottesca di Fantasia sottomarina, “documentario di creazione” apripista del festival, dà vita ad uno dei primi mockumentary della storia del cinema. Cinema artigianale, in cui il lavoro dell’uomo è visibile, lo sguardo dell’autore sempre presente. Si aggiunge, si toglie, si sovrappone, si essenzializza, bandito in ogni caso lo sguardo neutro, l’uomo-regista c’è e si sente, la realtà lasciata sola – e già allora, ovvero tanti anni prima della dipendenza da televisione e suoi derivati – impossibile da (ri)conoscere.

La sezione Il mio paese, con nove film documentari in concorso, è l’anima del festival, e i film ci raccontano storie di diversità, emarginazione, spaesamento: ecco il paradosso. Il deserto di fecondità – luogo geografico che riporta al viaggio di Goethe in Sicilia e alla pratica documentaria che continua a dissodare l’oggi pur tra mille difficoltà- salino, crudo, terrigno, aereo è invece l’ossimoro su cui ragionare e lavorare, per dare infine un corpo alla contraddizione e renderla strada fertile e identificabile, percorribile nel tempo.

Partire dalla realtà per rintracciare una traccia narrativa che quella realtà possa quindi illuminare, svelandone i rapporti, le mistificazioni, i conflitti che il “senso comune” tende -“saggiamente”- a non voler vedere. Contro la rimozione, ancora, cattiva pratica che ha invaso le nostre abitudini proiettandoci in un eterno, indistinto e ben ristretto presente. Perchè il documentario è anzitutto memoria. Come ci dice anche Vincenzo Marra, occhi attraversati da furori concreti, nel suo L’udienza è aperta. Un viaggio nella realtà italiana e nelle sue istituzioni, nello specifico la sezione di un Tribunale Penale di Napoli, documento antropologico dove mostrare i diversi attori che danno vita a un microcosmo da brivido. Il Presidente del Tribunale, svolgendo pedissequamente il proprio lavoro, dice bonario ma fermo, che non crede alla giustizia, che le donne sono esseri inferiori, che vorrebbe la pena di morte. Il magistrato che collabora con lui, una donna vivace che dorme poco e scartabella con scrupolo, risponde che l’identità culturale di una donna non può ancora oggi consistere principalmente nell’essere madre. L’avvocato sogghigna, esprime un pensiero progressista nell’intervista e agisce in aula da perfetto professionista dell’artificio reazionario. I due camorristi alla fine del processo non verranno condannati e l’udienza, simbolicamente (attraverso l’intervento manipolatorio del regista che con l’obiettivo allarga il campo), continua a rimanere aperta. In ogni caso il Presidente, nelle aule di Tribunale, continua ad essere considerato più “simpatico” della magistrata. Marra si congeda quindi dalla sala gremita con un augurio, invero rabbioso, a non vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto, a non aspettare sempre qualcosa di meglio; tutti atteggiamenti, anche questi, che danno corpo al delta vischioso della rimozione.

Ma torniamo al concorso, a questi film resistenti fatti con gli occhi, le mani, le unghie, in una ibridazione di generi diversi (oltre la semplice dicotomia tra cinema di finzione e documentario) che getta un ponte tra gli “artisti che teorizzano” e gli “intellettuali che realizzano”. Trasfigurare la realtà, sentirla scorrere e afferrarla, strappandola al “mare dell’oggettività” attraverso l’urgenza di uno sguardo personale, che sia lucido e al tempo stesso comunicativo.

Ed ecco allora che in Primavera in Kurdistan, vincitore del concorso, Stefano Savona si interroga sulla sorte di un popolo mantenendo la distanza di una sicurezza che è insieme timore e rispetto della alterità che è sempre fatto complesso, da comprendere. Meglio quindi scegliere un soggetto portatore di un punto di vista, farlo esprimere, camminare, respirare, standogli dietro, di lato, mai davanti (che sarebbe uno sposare la sua tesi). Solo nelle interviste sceglie un piano frontale che è però sempre mobile, indagatore, dandogli la possibilità di raccontare una piccola storia che, volto dopo volto, parola dopo parola diventa grande. Una piccola grande narrazione di un popolo alla ricerca di un’identità, di una vita in montagna che diventa il luogo della libertà, in cui sentimento individuale e senso collettivo dell’evento procedono assieme. In qualche modo “i film documentari che scrutano le realtà sociali camminano sempre insieme alle persone di cui raccontano”, e il punto di vista scelto in questo film è quello di un guerrigliero-traduttore del PKK, una specie di guida narrante, e di un gruppo di donne organizzate per la lotta per la libertà e l’autodeterminazione del popolo curdo. Quasi un romanzo di formazione, dove i volti bellissimi delle giovani donne (una bellezza piena, carica di emozione e sensualità dove poter scor
gere il desiderio che sembra attraversarle), ci parlano di qualcosa di più grande della battaglia di liberazione contingente, pur rappresentata nelle ambiguità politiche dei vari attori e nelle costrizioni ideologiche che pesano sulle donne soldato, ci parlano di una necessità universale che ha a che fare con l’emancipazione, l’appartenenza e la libertà dell’uomo. La montagna, come gli alberi su cui si muove Cosimo ne Il Barone rampante, diventa il luogo simbolico della conquistata indipendenza, il posto – con vista olimpica – in cui stare: “continuiamo a grattare la pelle scura e grezza di queste pietre, perché è l’unico modo per sentirci realmente vive”. Le donne leggono libri che insegnano loro rigidi dogmi, li imparano a memoria; ma non dimenticano i sogni (che hanno significativamente a che fare con i padri biologici, spirituali, politici. “Apo”, per loro, assume di fatto la veste del nuovo padre). C’è in tutto questo la rabbia della conoscenza, il respiro di una narrazione universale veicolato dal passo a distanza, dall’accurato montaggio, dal lungo tempo passato in montagna – rigore tenace e passione – di Stefano Savona. Alla domanda se gli sia venuto in mente di alzarsi alle quattro di mattina e di seguire i guerriglieri nelle operazioni rischiose, il regista ha risposto che non si possono cercare altrove le proprie carenze identitarie. Buio. Il film si chiude su un nero che è il drammatico epilogo per le tante persone protagoniste del film che ora non ci sono più.

Giovanna Taviani, al termine della proiezione, ha sintetizzato in modo efficace l’impressione lasciata dal film: “Si coglie la verità della lotta curda oltre che la realtà”.

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17 commenti su “SalinaDocFest/1: un deserto di fecondità

  1. bel pezzo! Un vero atto di contorsionismo e piaggeria. Schermaglie prevede più di un pezzo per un festival dal budget scandaloso per roba trita e ritrita? Bah!

  2. ebbene sì, prevede un altro pezzo in cui si parlerà degli altri documentari visti. Che siano triti dei documentari che non riescono a reperirsi neanche nei negozi specializzati è qualcosa che mi sfugge. Che si faccia del moralismo sommario pure. E’ stato un bel festival, con una buona organizzazione che ha preferito dare spazio ad un tema, parecchio originale, piuttosto che all’anno di uscita dei documentari in concorso, tutti comunque degli ultimi tre-quattro anni.

  3. Giampaolo, come mai ti rode tanto?
    Roba trita e ritrita lo sarà- come il 70% dei festival mondiali, che sono, peraltro aumentati smisuratamente negli ultimi anni.

    Se chi ha scritto il pezzo, poi, ha trovato un sano entusiasmo nel vedere qualcosa di bello, interessante, o piacevole, e stai sereno, senza nessun vantaggio da giustificare la marchetta, non è meglio per tutti?

    Dai ragazzi su, facciamoci una vita…

  4. già, perché si scalda tanto quel giampaolo? E’ come se ci fosse oggi in italia un’atmosfera di rosicamento generale sulle belle iniziative che fanno stare bene. Come un dire: cazzo, potevo farlo io e non l’ho fatto. Allora, caro Giampaolo, perché non ci prova lei a organizzare qualcosa in cui crede e a suscitare parole di entusiasmo come come quelle del pezzo in questione? stia sereno e si alzi dal letto che è finito il tempo di poltrire…

  5. il problema non è rispondere a ciò che scrive gianpaolo, la questione è spiegare a tutte quelle persone, che da secoli non poltriscono e si impegnano affinchè si possano organizzare dignitosamente e senza indebitarsi festival e rassegne, perchè non si riescono a raccogliere i fondi necessari da parte delle istituzioni. E questo è un fatto. E riguarda anche Festival che da anni lavorano e non sono alla prima edizione. Nessuno è contro l’organizzazione di una “Rassegna” (perchè di questo si è trattato) di documentari importanti, ne’ si tratta di “invidiare” chi ci riesce, ma bisogna impegnarsi affinchè non solo salinadocfest, ma tutti i festival, che hanno dimostrato qualità e un ottimo lavoro, riescano ad essere finanziati regolarmente. Credo sia questo il punto, tutti hanno diritto di poter contare sui “nostri” soldi pubblici per potersi permette una buona organizzazione e un buon festival, magari presentando e incrementando la conoscenza di prodotti inediti.

  6. rodere? scaldarsi? ehi, miei cari paladini del nulla, i documentari di salina erano già passati in altri festival da anni.vogliamo invece parlare di festival davvero validi di cui peraltro ho qui felicemente letto che fanno davvero rassegne originali e inedite e che rischiano di scomparire?mia cara articolista “entusiasta, spero metterai un’increspatura nel tuo prossimo fantastico mondo di oz, che il moralismo lo lascio a chi è a corto di ragioni e buone argomentazioni…buone battaglie a tutti

  7. Riguardo al “budget scandaloso” di cui parla Gianpaolo e alle domande di Cabiria, rispondo personalmente come direttrice del SalinadocFest. Abbiamo fatto i salti mortali per recuperare una somma che, a confronto degli altri festival, non è stata affatto “scandalosa” ma al contrario decisamente bassa rispetto all’offerta che abbiamo fatto(invitare a nostre spese tutti gli ospiti compresi i viaggi). Una mano sostanziale ce l’hanno data gli albergatori dell’isola che hanno offerto vitto e alloggio (il che è una novità per i festival). Per il resto i sindaci dell’isola si sono dati molto da fare con sponsor privati e istituzioni e noi “romani”, da parte nostra, abbiamo ottenuto un aiuto dalla Promozione spettacolo del Ministero dei Beni culturali e dal Ministero dell’Ambiente. Risultato: un grande stress e un impegno sostanziale a gratis (nessuno di noi è stato pagato, ndr)grazie alla passione di uno staff meraviglioso che ci ha creduto e continua a crederci. Per quanto riguarda i documentari selezionati, certo che sono visti e rivisti. Né credo che il salinadocfest si sia inventato chissà che: esistono molte rassegne e festival del documentario in Italia davvero validi e io, per la mia indefessa volontà di credere in una politica di alleanze, ne sono ben felice. Penso però che il “successo” del salinadocfest sia dovuto ad altro: aver messo in piedi in un’isola bellissima un gruppo di lavoro “trasversale” e “interdisciplinare” che va dalla letteratura al cinema, con intellettuali di alto livello (uno dei quali non c’entra nulla con il mondo dei “cinematografari” ed è il professore di letteratura Romano Luperini, unico critico militante rimasto in Italia) e aver dato “visibilità” a un lungo percorso di lavoro che, per quel che mi riguarda, comincia con la letteratura 20 anni fa e con un percorso accademico di fatica, studio e lavoro. Non so se basta. Io, per conto mio, mi auguro che iniziative come queste vengano intensificate e che ciascuno di noi assuma i successi dell’altro come un incentivo a fare sempre di più e magari, o di sicuro, anche meglio. Buon lavoro a tutti.
    gio

  8. Cara Giovanna, non si possono definire una cifra bassa 80.000 euro di finanziamento per un festival alla prima edizione. Si tratta di un’opportunità enorme che non è certo data a tutti. E’ evidente che il cognome che porti conta in queste cose, dovresti tenerne conto prima di dire a tutti che stanno poltrendo e che si devono svegliare. Il problema dell’Italia non è il rosicamento generale ma sono le ingiustizie e i favoritismi, di cui l’eventuale rosicamento non è che un effetto collaterale.

  9. non so, giove, forse tu sei un duro e puro, uno che non ha mai dovuto affrontare compromessi e quindi le collaterali lacerazioni. Il problema, come diceva anche Piccioni nella sua lettera “contro il sistema” (SISTEMA, ndr) non è certo puntare il dito dall’alto su singoli individui ché vorrei proprio vedere chi è così libero e puro da poter scagliare pietre, sempre troppo dure tra parentesi ma semmai rendere evidenti i compromessi che si devono fare per poter oggi organizzare in Italia eventi nazionali e farsi produrre film che non rimangano a marcire negli sgabuzzini. Tutto il resto, per come la vedo, e pensando anche ai toni molto acidi usati, ha a che fare col solito complesso d’inferiorità irrazionale, individualista e distruttivo all’attacco..
    Cordialmente.

    Cordialmente.

  10. Be’ va bene non demonizzare i singoli, però, almeno, chi è “costretto” ad approfittare dei propri privilegi non si metta a dare lezioni e, soprattutto, non pretenda comprensione per i suoi sensi di colpa laceranti: quando è troppo è troppo…
    (e comunque, a prendersela sempre col SISTEMA finisce che nessuno si prende le sue responsabilità e non cambia mai niente…)

  11. Cari Lettori,

    più volte nei vostri interventi direttamente o indirettamente sono stato chiamato in causa in quanto direttore di questa rivista. Mi riferisco in particolare ai commenti di Gianpaolo, Cabiria e Bals. Rispondo prima di tutto a loro tre. Ho voluto pubblicare un articolo sul “Salina” che non presentava accenti critici.Insomma è mia responsabilità, ne sono corresponsbaile.

    Schermaglie vuole avere uno sguardo non ingenuo su quanto accade nel cinema italiano. Per questo motivo sarebbe stato meglio mettere in evidenza insieme agli aspetti positivi le criticità. Ha infatti ragione Cabiria quando dice che bisognava parlare di una “Rassegna” e per farlo sarebbe bastato guardare con maggiore attenzione al programma. Un errore che giustamente Gianpaolo sottolinea e che mi auguro di non ripetere.

    Il “Salina” ha in effetti il “patrocinio e il contributo” del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. E’ stato definito un “progetto speciale” dal ministro Rutelli che è intervenuto alla manifestazione con un video messaggio. Inoltre per quanto riguarda l’intervento pubblico c‘è il Ministero dell’Ambiente, quello della Regione Sicilia, della Provincia di Messina e dei tre comuni dell’isola. I criteri e i modi con cui vengono elargiti in Italia tali finanziamenti richiederebbe un’indagine che non è nelle nostre forze.

    Immagino però che come esistono “comunità montane” a livello del mare, quelle denunciate da Rizzo nel libro “La casta”, ci siano altrettanti paradossi per quelle che sono le iniziative culturali.

    Ma l’aspetto più curioso che possiamo notare è che a Salina esiste già un Festival. In una piccola isola ce ne sono dunque due! Uno che si chiama SalinaFestival – CineMareMusica(http://www.salinafestival.it)che si è svolto dal 31 luglio al 5 agosto col contributo del Ministero Affari Esteri Cooperazione Italiana allo sviluppo (sì, è così). E poi Regione, Provincia e Comune. Un premio è andato ai fratelli Paolo e Vittorio Taviani “per la loro attività registica, spesso intrecciata con la storia di queste isole, di cui sono entrambi grandi appassionati e profondi conoscitori”. L’altro è il SalinaDocFest che oramai ben conscete (http://www.salinadocfest.org)diretto da Giovanna Taviani che esprime opinioni che non riesco bene a compredere. Mi auguro ci possa essere l’occasione per riparlarne con franchezza.

    Termino dicendo che quanto dice Bals mi mette una certa amarezza. Che vuol dire “facciamoci una vita…”?

    Vi saluto. Spero ad ogni modo che continuiate a leggere Schermaglie.it e a dare il vostro contributo in commenti o mail, quale esso sia.

    A presto.

    Marino Galdiero

  12. le parole sono importanti ma voi vi ci nascondete dietro. Il fatto che sia una “rassegna” azzera l’idea di festival in cui presentare, far conoscere, associare o dissociare film, temi, formati? Voi non ci siete stati, a questo festival. Parlate per sentito dire. Parlate di un tema che è molto più ampio dello specifico, un evidente “resoconto” (come quelli che possono provenire dal festival di Pesaro, ad esempio), e a cui non penso seguirà una seconda parte che sarebbe altrettanto ingenua visto che continuerei a parlare di altrettante belle cose viste. Spero che tutto questo furore critico e indignazione morale lo riserverete anche ad altre iniziative.

  13. Farsi una vita, cari ragazzi, non mette amarezza, ma da speranza. Vuol dire che tanto veleno, buttato spesso nascondendosi dietro un dito digitale, non deve in nessun modo scalfire l’opera di chi, ai festival, ci va a spese sue, e scrive, a spese sue, per informare la gente.

    Farsi una vita è un invito: per chi nega, per chi distrugge e chi non vuole vedere oltre il suo naso. Per tutti questi, il mondo è ricco e pieno. E vale la pena viverlo, perché riserva molta più gioia di una piccola vittoria internettiana.

  14. Cosa distingue un festival da una rassegna? Una settimana di incontri, film, ospiti, spettacoli teatrali può essere definita rassegna? Avere una idea (una qualsiasi idea) e cercare film che questa idea la mettano in scena cosa è? Organizzare una rassegna o cercare di dare ad un festival una identità? E quando un festival o una rassegna mostra film già visti in qualche altro Festival, e portarli in un’altro posto, lontano da Roma 15 ore (nessuno protesta per LA TERZA MADRE che è stato ad un Festival a 7 ore di distanza da Roma) è questa una cosa moralmente discutibile? Quale è il problema? Che Salina abbia due Festival o che Salina non abbia una sala cinematografica? Che persone riempivano una sala per vedere ogni sera film (non a casa soli davanti al dvd a velocità doppia o a Sky, ma tutti insieme a vedere e poi a parlare) è una cosa sulla quale si può discutere? Pensate che 40mila, 80mila, 120mila o un milione di euro, potrebbero essere spesi meglio che darli in un posto dove cinema non esiste, dove l’adsl non funzione, dove non ci sono licei o università (il direttore di questa rivista dovrebbe magari pensare un po’ prima di scrivere le idiozie con cui ha scaricato la sua redattrice). Magari offrendoli a qualche regista che vi è più amico di quanto Stefano Savona è amico della direttrice di questo festival e che è arrivato a Salina senza averla mai vista prima e poi ha vinto il premio? Non capisco il senso della polemica? Il problema è il cognome Taviani che spaventa? Il problema è che qualcuno è riuscito a fare qualcosa che tutti noi avremmo voluto fare e che saremmo stati sicuramente tutti in grado di fare meglio di chiunque altro e, che sfiga, perché lei si ed io no? O il problema è la qualità dei film scelti? Non so, non vi è piaciuto CAN TUNIS (l’avete visto? settanta persone a Salina si, lo hanno visto!) o il film di Guiducci vi sembrava imbarazzante? O vi da fastidio che Pietro Marcello sia stato prima a Salina che a Milano?
    Ma questi discorsi su questo forum che cosa stanno muovendo sul cinema, sul cinema documentario in Italia, sui documentaristi, sulla posizione rispetto alla guerra tra kurdi e turchi, il degrado delle periferie, la caduta del governo? Questa polemica su festival o rassegna mi sembra vergognosa. E che nasconda altre cose, banali ed ancora più vergognose.

  15. Leggendo il tutto mi pare che l’unico vero e unico merito di questo salinadocfest sia quello di aver suscitato, almeno su questo sito, una polemica. E’ facile per i giornalisti scaricare i sensi di colpa, per essersi fatti tre giorni di vacanza in uno dei paradisi del mediterraneo. Spesati di tutto e alloggiati nei migliori alberghi dell’isola, non potevano che scriverne bene perchè l’anno prossimo se no chi li ri-invita se mai ci dovesse essere una prossima edizione, e io spero veramente di no, perchè basta con questa italietta del nepotismo, dove il nome Taviani non fa paura a nessuno ma solamente gola ai politici di turno. Ottantamila euro sono veramente troppi per una rassegna alla prima edizione ma è anche facile averli con un progetto ( che parrebbe non essere neanche tutto frutto della direttrice ) in un posto sfigato culturalmente, dove il massimo che ottengono è un collegamento con sky e dove l’adsl non sanno neanche cosa possa essere. E’ vero che in questo Paese la rosicata è protagonista ma in questo caso la ritengo sana, poiché di festival in Italia che si occupano non solo di documentari ce ne sono molti e molti altri rischiano di morire perchè nessuno può permettersi di chiamare per nome la moglie del ministro.

  16. va beh se il romadocfest chiude non vedo perché a Salina dovrebbero rinunciare a vedere dei film!
    stica

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