Non è un film, non è un documentario. Non è docu-fiction, non è una intervista, non è un programma televisivo.  Quindi: non è.  O meglio:  è una cosa strana, un oggetto comunicativo strano, esprimibile solo per metafora.

Già, perché da una parte hai la realtà, nuda e cruda, minimale, banale. Dall’altra quella realtà si rappresenta, e tu sai meglio di me che appena accendi una telecamera o impugni una macchina fotografica l’essere umano -vivente nel  villaggio globale – si trasforma, si rappresenta. Appare.

Provo a tirare ad indovinare: è questo apparire, questo auto-rappresentarsi, che il regista non sopporta. La sua ritrosia ad impugnare il ferro del mestiere, la cinepresa, è lo stesso che mandava ai pazzi (ci rifletto su) Schopenhauer. Il Velo di Maya, la trasfigurazione dell’essere nell’apparire, il celarsi della realtà nella sua rappresentazione.

E allora seguo il filo dei miei pensieri, e vi propongo da critico cinematografico un gioco rischioso, un gioco di interpretazione che è poi l’unica arma che il regista ha per farsi  raccontare dagli altri quello che lui stesso non saprebbe dire a parole. Ed infatti usa le immagini. E noi su quel filo ci avventureremo.

Immagino liberamente. Rosi in una partita a carte, con i suoi personaggi incontrati casualmente, ma poi messi intorno al tavolo dopo lunga, ardua e attenta selezione. Il tavolo rotondo con panno verde ridiventa il lungo e tortuoso Grande Raccordo Anulare, il mostro parmenideo attorno al quale sono “vissute” (stavo per scrive “ambientate”, ma sarebbe insensato) le storie che affiorano nel racconto.

Rosi mescola le carte, e le distribuisce, a giro, una a testa, e poi la seconda, sempre a giro, fino ad esaurire l’intero mazzo. Ogni carta è una scena di vita, che lui vive assieme a ciascuno dei suoi personaggi. Volta la carta e compare la scena.

He deals the cards as a meditation
And those he plays never suspect
He doesn’t play for the money he wins
He doesn’t play for respect 

Le carte sono differenti una dall’altra, sembra che fra di loro non vi sia alcuna relazione determinata. Possono capitare a caso. Un gioco che piaceva molto a Italo Calvino.

Solo che qui siamo in un film, e se anche la trama non è dichiarata, quando comprendiamo la sottile relazione geometrica fra i quadri di vita, le scene e i micro-racconti, le vampe di vita che Rosi sceglie di trasmetterci, a giro, come le carte che ha appena distribuito, ci si spalanca un abisso al di sotto.

He deals the cards to find the answer
The sacred geometry of chance
The hidden law of probable outcome
The numbers lead a dance

Chissà quante volte avrà percorso il GRA avanti e indietro, il regista, come il portico di una scuola filosofica. Una lunga meditazione circolare, peripatetica. Con lo stesso incedere lento, meditativo, assorto.

E veniamo al dunque: gli alieni. Non ovviamente nel senso italiano del termine, ma in quello anglosassone.  La estraniazione, lo straniero indifferente ed ignoto. Il gioco delle carte a cui Rosi sta giocando – è la mia interpretazione – è proprio questo. E ve lo argomento.

Il GRA è un non luogo, popolato di tantissimi oggetti in movimento, i veicoli, guidati ciascuno da qualcuno che noi ignoriamo, che non entra nella nostra vita, che ci è estraneo, alieno. Che passa e va. Passa, rumorosamente, e inquina, e puzza. Ma è una meteora che scompare, che non si ferma, che non staziona.

Quella enorme, puzzolente, rumorosa doppia colonna di luci bianche e rosse non fa una storia, fa una situazione. Non è (cinematograficamente  parlando). E’ un non-qualche-cosa. E’ una striscia brulicante che si disinteressa del luogo dove passa, e il luogo stesso, poiché vi passa la fettuccia circolare, non riesce a – né ha la possibilità di – strutturarsi in qualcosa di sociale.

Poi il suo ecosistema, sia vegetale che animale. Arrivano dapprima le pecore, mentre i veicoli urlanti in un delirio di rumori e di fumi scorrono sullo sfondo di una campagna immobile e quasi sonnolenta, indolente.

Ed ecco il primo vero segnale alieno, il punteruolo rosso, il parassita delle palme. Uno dei personaggi del film lo sta tenendo d’occhio, lo indaga, ne analizza i rumori. Il Punteruolo è l’alieno organizzato per distruggere quegli organismi pacifici e bellissimi che sono le palme. Da lontano i più dotati fra gli insetti  percepiscono l’odore della vittima vegetale, e organizzano il massacro, l’orgia, la fecondazione e riproduzione della specie, il magna-magna.  Ognuno per proprio conto, ma tutti insieme organizzati come noi non lo saremo mai.

Lo stesso insetto, trasformato adesso in umano, lo riprende Rosi nel suo “complesso abitativo” (oggi si chiamano così i casermoni) dove alcune storie vengono spiate da fuori la finestra, macchina posta esattamente nello stesso punto reciproco, ma a piani diversi. Così assisti, seguendo il turno delle carte, la storia di un “naso” e di sua figlia perennemente china sul tavolo, la storia del disk-jockey sudamericano, la storia di due donne, tutte storie fatte di nulla, facezie, in cui non ti riconosci, e dove non vuoi neanche riconoscerti nella loro abitazione.

Sono, e vivono, come i vermi nella gruviera, ciascuno nel suo loculo, tutti a succhiare quel poco di vita e di speranza che gli vene riservata dalla sorte, dalle carte che hanno in mano, senza jolly e senza pinelle. Il Verismo si fa pellicola.

Ed eccoci al secondo indizio, Watson. L’anguillaro. Torna dalla pesca con le sue vittime, acciuffate dalle nasse sotto i cavalcavia del Tevere. Legge il giornale, mentre i compresenti riparano le reti. Legge: qualche idiota vuole importare le anguille per allevamento dall’America o dalla Russia. “Ma perché non allevano quelle italiane? Se porti un’anguilla con dieci microbi, poi quelli nel nostro habitat diventano due milioni, e non sai mai cosa può succedere”.  L’idea dell’invasione aliena, del contagio da elementi provenienti da fuori. L’idea del Punteruolo Rosso delle Palme.

Fai attenzione, Watson, e segui il giro delle carte: ora tocca ad un monolocale della gruviera, è notte, e di cosa parla la televisione perennemente accesa e appiccicata al muro sul lettone? Di alieni, si di quelli veri, gli alieni marziani. Te lo dice papale papale, il regista.

E te lo ribadisce ancora con l’anguillaro, ora ripreso nella sua cucina, mentre mangia una fetta di melone con la sua donna, il suo “amore”. Ma è un’altra aliena, una ucraina, che non conosce nemmeno i sapori italiani. Un romanaccio e una ucraina, che c’azzeccano?  Ma questo è l’ecosistema del GRA.

And if I told you that I loved you
You’d maybe think there’s something wrong
I’m not a man of too many faces
The mask I wear is one

Resta ora da risolvere l’enigma principale, cosa
sia in questa rappresentazione, proprio il GRA.

I cartelli iniziali ce lo rappresentano come una sorta di Anello di Saturno.  Ma questo va bene per iniziare, come antipasto. Vediamo le scene di vita rappresentate, ad alto tasso di verità, il minimo possibile di rappresentazione. Storie ai margini, al bordo, storie di alieni e alienati. Anzi: nemmeno storie, ma lampi, flash, quadri di una esposizione all’aria aperta. Le periferie di Vespignani, la disgregazione totale che è diventato il nostro Paese, dove nessuno ci si raccapezza più e nessuno riesce a organizzare una risposta. Ma tutti guardano gli altri passare sul GRA e scomparire. Dileguarsi.

Il GRA diventa rapidamente la Palude Stige, che circonda l’inferno dentro. Non sto necessariamente dicendo che la Città Eterna sia quell’inferno. Troppo semplice. Quella palude circonda il nostro animo, lo trasforma in una terra desolata dove ogni stazione, ogni uscita, è una via di possibile fuga. Ma loro, i nostri personaggi,  sono lì, “stanno” lì. Ci sono capitati, come le carte che ti sono state distribuite. Le sacre geometrie del caso.

Those who speak know nothing
And find out to their cost
Like those who curse their luck in too many places
And those who fear are lost 

Ritrovare un filo, nella narrazione scarna di Rosi, è sempre una impresa, e per di più arbitraria. Posso dire con quasi assoluta sicurezza, che ciò che io vedo nel film non sarebbe approvato dal regista e autore. Ma il bello di un’opera d’arte, quando è tale, è che si presta e si offre a molteplici interpretazioni.  Ciascuna di esse conterrà una parte della verità, è una delle facce del diamante, perché fa emergere dall’inconscio collettivo quelle connessioni che altri vedranno in maniera diversa. E il bello della cultura consiste nel condurre quelle riflessioni al cospetto della nostra meditazione lunga una vita, per chi avrà avuto la fortuna di viverla in questa dimensione speculativa.  Il Cinema, inopinatamente, lo fa con le immagini. La Critica, sciaguratamente, lo ottiene con le parole. La rivelazione di un enigma termina solo il primo giro e prepara i giorcatori per la mano successiva.

I know that the spades are the swords of a soldier
I know that the clubs are weapons of war
I know that diamonds mean money for this art
But that’s not the shape of my heart

[I versi sono tratti dalla canzone “Shape of My Heart” di Sting] http://www.youtube.com/watch?v=kW_kgpXicVM

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One thought on “Sacro GRA Meditation

  1. ciao, premetto che più passa il tempo e più confermo la mia opinione negativa sul film (che magari nei prossimi giorni articolerò in una sciaguratissima recensione 🙂
    detto questo, volevo però dire subito una cosa rispetto a quanto scritto da marino, che ho letto con molto molto interesse. non so se ho capito bene quando dici “Quella enorme, puzzolente, rumorosa doppia colonna di luci bianche e rosse non fa una storia, fa una situazione. Non è (cinematograficamente parlando). E’ un non-qualche-cosa. E’ una striscia brulicante che si disinteressa del luogo dove passa, e il luogo stesso, poiché vi passa la fettuccia circolare, non riesce a – né ha la possibilità di – strutturarsi in qualcosa di sociale”. Non so, cioè, se intendi dire che solo con l’intervento “narrativo” dell’autore quella massa informe può farsi intreccio e racconto: un racconto (sociale) sulla vita di un gruppo casuale e marginale di persone, oppure, forzando la simbolizzazione, una Storia della casualità dell’esistenza. In ogni caso. Quello che qui vorrei fare è un po’ contestare l’affermazione che, piò o meno, una “situazione” non sarebbe cinema. A mio parere, anzi, “la situazione” è costitutivamente cinema. Cioè è anzitutto osservazione del tempo, racconto del movimento, anche lentissimo, del tempo. Riporto alcune considerazioni di Andrej Tarkovskij (ma non è un nascondersi :), che ben spiegano il mio sentire rispetto a quanto appena detto. “Il cinematografo può avvalersi di qualsiasi fatto disseminato nel tempo, può scegliere della vita qualsiasi cosa. Ciò che in letteratura è una condizione isolata o un caso particolare (T. cita un racconto di Hemingway in cui, a suo dire, c‘è un’introduzione “documentaria”), per il cinema è una manifestazione delle sue principali leggi artistiche. Qualsiasi cosa! Questo “qualsiasi cosa” potrebbe non essere organico per l’intreccio di un romanzo, per una rappresentazione teatrale, mentre per il cinema risulta quanto di più organico si possa immaginare”.

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