Sono le tre di un pomeriggio piovoso, le sedie della piccolissima sala del Piccolo Cinema America, dopo lo sgombro del Cinema America, però sono accoglienti, nel senso che offrono una sistemazione in un certo senso comunitaria alla visione, e le immagini prendono a scorrere.

 Un primo pannello pieno di parole e fatti ci introduce al film, anche se ci accorgiamo presto come qui sia dato per scontato che la vicenda della Val di Susa non è altro che un grosso imbroglio. Le persone, le immagini, le parole, sono infatti a costruire e testimoniare un fenomeno diverso e antico, che ogni volta si tenta di schiacciare, di marginalizzare, di rendere silente e che ogni volta dimostra la sua insopprimibilità. Giungono echi di indignazione e rivolte dall’America di Ferguson, è la stessa storia che si ripete e che forse si ripeterà in eterno, e ogni volta è una sconfitta, così almeno sembra.

 Gaglianone invece ci mostra che le storie , le persone, le energie che si dispiegano sono vittoriose e lo sono sempre state. Sono vittoriose nel senso che un sorriso, un’emozione, la paura e  la gioia, il senso della  comune percezione dell’ingiustizia, della lotta e del sacrificio, se si esprimono, se trovano i canali per emergere, per dilagare, sono vittoriose di per sè, come le verità di per sè evidenti enunciate nella costituzione degli Stati Uniti d’America, come a Ferguson Missouri, importa poco che la brutalità tenti di schiacciarle e che apparentemente ci riesca. Le idee di rivolta non sono mai morte, recita la canzone, e non moriranno mai. Perché?

Il documentario è rigoroso, ma più che un documentario, se vogliamo, è una storia narrata da più persone tra loro molto diverse, che forse non si sarebbero incontrate se le circostanze non le avessero indotte a percorrere una strada, quella che porta al cantiere del’alta velocità in Val di Susa.

E qui si fa largo la prima realtà mostrata e costruita: la strada è la stessa per gente differente. La prima è un’anziana signora, la zia buona che ognuno porta nei suoi ricordi o nel suo immaginario. Percorre la strada con un po’ di fatica, ma la sopportazione della fatica è una sua caratteristica, resiste e si impegna e forse lo fa anche per i suoi nipoti, o forse così piace immaginarla a noi, ma è lì, è reale e ci sarà sempre. E la camera è lì, la inquadra e la lascia parlare, a lungo, e lei spiega con calma le enormi bugie e le verità nascoste (e le bugie non si dicono –insegna ai suoi nipoti). Alla fine incontra gli altri, li saluta li abbraccia, pregano insieme. Sembra di rivivere le pagine di Furore di Steinbeck, capannelli di persone si incontrano nel buio di luoghi nascosti, illuminati dai falò delle anime e si abbracciano, si danno assistenza, si organizzano.

Poi un volto maschile. Bello, fiero e carico di umanità, ci racconta della voce di radio black out, delle cronache in mezzo ai fumogeni, terribili, di un tipo vietato in paesi più evoluti ma usato per reprimere i moti della valle. Ci racconta la storia di Luca, inerpicatosi più volte sui tralicci a testimoniare gli eventi, e alla fine caduto per essere andato troppo in alto, inseguito dagli scalatori professionisti della polizia. Sembra una storia retorica e sciropposa ma nel documentario non è così, c’è dell’allegria nel racconto, e comunque Luca non è morto. Ma la violenza c’è tutta e per fortuna non è da una sola parte.

Già,  il filo rosso del racconto sembra proprio consistere nella consapevolezza che la violenza istituzionalizzata non è accettabile, e che bisogna rispondere, a costo di opporsi con dell’altra violenza. La storiella della democrazia rappresentativa, che si esaurisce nel voto, qui non è digerita (e a quanto pare non lo è neanche in Emila Romagna, dove più del 60% della gente non è andata a votare), non è possibile accettare l’ingiustizia quando è di per sé evidente.

 Poi altre belle persone, che forse non sarebbero state così belle, percorrono la stessa strada, alcune incontrano i poliziotti dai volti inespressivi, parlano con loro a lungo. Le anime degli agenti  sembrano impenetrabili, sono addestrati alla violenza e le parole sembrano non scalfirli, sappiamo che torneranno a picchiare e a obbedire agli ordini e che adesso vorrebbero solo liberarsi dal caldo e da quella rompipalle che continua e continua a rivolgersi a loro, proprio a loro -ma lei è convinta, la parola farà breccia nell’anima ed è già vittoriosa così .

Il sindaco di Venaus, raccoglitore di funghi, ci spiega  come lo avessero convocato a notte fonda a Torino il prefetto il questore loschi agenti della DIGOS e gli avessero ordinato di provvedere allo sgombero della strada dalle barricate. Loro, con duemila agenti antisommossa schierati avevano chiesto a lui di ordinare al corpo dei vigili urbani, composto da una persona, di rimuovere le barricate: gli risponderà “eccellenza, la legalità sul mio territorio si ripristina togliendo i posti di blocco della polizia”. E parteciperà poi agli scontri.

Poi ancora una famiglia piccolo borghese, padre madre e figlio, impiegati, alle prese con il mostro che gli passerà davanti. Ed è così che partendo da piccoli interessi personali scopriranno il vero volto della prepotenza, della protervia e della violenza, anche dentro una sezione del PD, così come è da lì che cominceranno il percorso della strada che li porterà nei boschi, inseguiti dalla polizia. Le dichiarazioni finali della famiglia sono per combattere la violenza con la violenza, il piccolo impiegato dalla faccia mite prenderà le cesoie per aprire varchi nella rete che li tiene prigionieri, sì perché la recinzione non è a protezione del cantiere ma è per rinchiudere la valle, per rinchiudere l’aspirazione alla giustizia.

L’ultima persona mostrata è anche lei una persona anziana, ma non è mite, è radicale ed è violentemente allegra. S’incatena alla recinzione con un paio di manette comprate in un sexy shop alle quali toglie prima la palliccetta. La vediamo poi perdere anche le chiavi, scherzare, ridere, ma si percepisce chiaramente la rabbia che l’anima -è forte come dovevano essere i partigiani che in quelle montagne hanno sacrificato la vita, anche loro con allegria e furore.

Ora Gaglianone non compie solo un’operazione di lucido e sincero trasporto delle ragioni e delle vite delle persone che sono attraversate e sconvolte dagli eventi , non mostra solo i volti, le emozioni e le riflessioni e le angosce (la montagna è piena di amianto e le fibre assassine si libreranno nell’aria come il polline ma non a fecondare bensì ad uccidere), no, Gaglianone costruisce un percorso, un pezzo di quella strada che i no-tav stanno percorrendo, e ci invita a seguirli perché è lungo di essa che si costruisce il senso  della scoperta, o della ri-scoperta, della verità contenuta nella forza inarrestabile della rabbia e della rivolta contro un sistema potente e sfuggente, che si nasconde dietro costruzioni incredibili di menzogne ammantate di finta democrazia (rappresentativa ma anche di partecipazione manipolata) e alla fine mostra il volto truce della violenza, senza alcun pudore.

Le idee di rivolta non moriranno mai perché con esse perirebbe il genere umano, perirebbe, cioè, la scintilla di vita che anima la materia grezza e senza la quale la bestia finirebbe per uccidere se stessa. La guerra di classe che si è svolta in America durante le rivolte sindacali condotte dal IWW (industrial workers of the world) detti anche wobblies, “gli itineranti”, è stata vinta dai capitalisti attraverso l’uso brutale della violenza che ha causato migliaia di morti. I lavoratori risposero con la violenza e furono sconfitti ma non lo furono  le loro idee che solo attraverso la rivolta potevano esprimersi. E anche se il sistema è fortissimo, un presidente nero parla ora, e qui,  contro la violenza, parla contro la violenza della polizia di Ferguson.

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One thought on “Qui di Daniele Gaglianone

  1. Bel pezzo appassionato! La forza di QUI è che QUI non èlì e ma è in ogni luogo, le storie dei 10 valligiani sono le nostre, sono del mondo. Daniele Gaglianone le lascia parlare, le osserva, le ascolta (quanto è difficile oggi ascoltare qualcuno in una società piena di rumori, di persone che non ascoltano dove spesso anche le istituzioni che dovrebbero essere l’orecchio e l’occhio di noi cittadini sono cieche e sorde) e lo fa col cuore, la passione, il rispetto. Il silenzio delle istituzioni si sta facendo assordante e chi vuole “deformare” le proteste, la realtà è in agguato: da far vedere solo i blackblock delle manifestazioni per lo più pacifiche (uomini incappucciati magari messi ad opera per far fallire la protesta), a chi accende le periferie di falò razzismi, falsi problemi per pura campagna politica (spostando l’attenzione sui veri problemi). L’approfondire, il porsi delle domande, il cercare di capire, di conoscere nell’era dove tutto sembra più facile (con internet basta un click) s’impigrisce e spesso non si va oltre l’informazione che arriva (a volte deformata, falsificata, parziale). I 10 valligiani di Gaglianone fanno venir voglia di non smettere di lottare per la democrazia, perché lo Stato (che poi siamo ognuno di noi) non perda, non si smetta di lottare per la giustizia, il bene comune, la dignità, il nostro futuro senza la triste rassegnazione e il silenzio che qualcuno spera di suscitare nin noi cittadini.

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