“E’ nei giorni della merla che ricordo d’esser vivo / anche il fuoco si lamenta, il gelo gode e taglia il viso”

Così nel 2013 scriveva Andrea Appino  nell’incipit di un’intensa e sinistra ballad, “I giorni della merla” appunto, nella quale il cantautore pisano modellava sull’immagine del periodo più freddo dell’anno la suggestione del dolore di una vita che non scalda o che, peggio, fatalmente congela. Hanno richiamato la mia attenzione le note e le parole del frontman dei The Zen Circus mentre seguivo con una forma di scellerata empatia le vicende televisive di Olive Kitteridge, l’antieroina protagonista nel 2008 dell’omonimo romanzo di Elizabeth Strout, e nel 2013 della miniserie in 4 puntate prodotta dalla HBO.

Quasi che la fittizia cittadina del Maine in cui la vicenda ha luogo, l’onirica desolazione delle sue litoranee spoglie, il rosso sbiadito dei suoi boschi cristallizzati in un autunno quasi perenne, e il vento tenace che tutto l’anno soffia impassibile sulle case di pescatori e non, mi avesse trasmesso con forza una suggestione predominante su tutte: quella del freddo sinistro e spietato, che ci costringe, talvolta anche accompagnato da un senso di insano autocompiacimento, al doloroso letargo. Proprio quel freddo che Appino, appunto, immagina inesorabilmente imbalsamato nelle “case ormai ghiacciate da un silenzio familiare”.

L’Olive Kitteridge televisiva è una donna dal brutto carattere, così almeno la definiremmo se il concetto di carattere fosse davvero compiutamente incanalabile in postulati, topos e categorie. Sarcastica, arcigna, ipercritica, cinica, l’Olive di Frances McDormand non ha pietà per alcuno: mariti, figli, nuore, consuoceri, amici, conoscenti ed ultimi arrivati. Mai, al cospetto degli altri nonché di se stessa, né per caso né per dabbenaggine, la sua esteriore anaffettività si trova a cedere il passo ad un attimo pure solo accennato del sentimentalismo che invece ribollisce al suo interno. Da sempre e per sempre il freddo soggiorna nel suo cuore, o almeno da quando il padre si sparò un colpo di fucile in testa per porre fine alla schiavitù in cui le proprie nevrosi depressive lo avevano ridotto, e lasciandole come sola eredità il proprio male di vivere.

La depressione è “di famiglia”, nella sua vita lo ripeterà spesso Olive al figlio adolescente, come un monito di avvertimento e un presagio per il futuro. Quasi a ribadire, a freudiana memoria, che “Ogni adulto convive col bambino che è stato”, e che, dunque, difficilmente, se non con sovrumani sforzi, sarà possibile sopravvivere al contesto che ci ha donato la vita e poi ai riti e alle modalità che ci hanno cresciuto. La durezza di Olive non si trattiene al cospetto del marito Henry, il suo alter ego per eccellenza. Mite, trattenuto e ipercontrollato (Richard Jenkins è perfetto nei suoi panni), ben disposto verso ogni altrui umana esperienza, accomodante e sereno fino all’inverosimile, l’uomo scatena inevitabilmente le frustrate rappresaglie della moglie, consapevole, lei, di una distanza inusitata tra i due, di un’incolmabile inconciliabilità tra il felice appagamento dell’uno e la tormentata misantropia dell’altra. Un marito testardamente felice delle pillole della sua farmacia, da dividere con precisione ogni giorno con un Tritapastiglie professionale. Olive lo tradisce almeno platonicamente con Peter, il preside della scuola in cui insegnerà per tutta la vita. Un uomo rude e sentimentale al contempo, proprio come lei, nel e col quale sublima e idealizza un progetto di fuga dalla realtà, che tale resterà dopo la prematura scomparsa di lui. Henry, consapevole delle distrazioni della moglie, tenta il riscatto personale provando a sedurre la giovane impiegata della sua farmacia, salvo ripensarci dopo la morte di Peter e tornare ad elemosinare un barlume di tenerezza da Olive e a chiederle disperatamente di non lasciarlo.

In fondo, rileggendo le dinamiche famigliari di Casa Kitteridge, la diversità caratteriale così netta tra marito e moglie costituisce, è vero, una distanza siderale tra i due, ma allo stesso tempo caratterizza il gioco di un equilibrio di coppia sostanzialmente solido perché retto su due perfetti contrapposti. Dopo la scomparsa di Henry, infatti, Olive perde il sostegno del suo naturale complemento, di colui che, con la propria carenza di ambizioni, rappresentava per la moglie la spiegazione e la valorizzazione del suo percorso depressivo. Una volta infatti Olive dice ad Henry: “Ho capito che sei un uomo troppo semplice per me”, che è un altro modo brutale di dire: “Solo con te posso sentirmi una persona migliore”.

Il freddo di Olive non si ferma neppure davanti al figlio Christopher, prima adolescente e dopo adulto, cresciuto tra due fuochi antitetici e fagocitanti, e per questo incapace di sentirsi abbastanza sensibile ed intelligente per riuscire ad accomodare l’inconsapevolezza del padre e il nichilismo della madre. Quest’ultimo invece cresce a dispetto degli anni che passano, perché ingrassato dal nutrimento dell’insicurezza e, più precisamente, della convinzione rassegnata in un futuro ostile; cresce anche dispetto del naturale e innegabile amore materno. Un giorno Olive infatti avverte il ragazzino Christopher: “Niente è mai come dovrebbe essere”.

Dunque, l’utopia di collimare i fatti con le aspettative spiega la risma di sentimenti malevoli esplicitati più volte da una donna incapace, invece, di dimostrare e mettere in atto quelli più meritori; così ne deriva l’assenza di cura ed empatia nel proteggere il figlio e nell’accompagnarlo verso la dura prova di una vita da adulto. Vita adulta che riserverà a Christopher la sofferenza per il fallimento di un matrimonio, la successiva rinascita in una nuova vita di coppia e, quindi, la prima paternità; fasi cruciali di un’esistenza, ognuna delle quali segnata dal silenzio e l’assenza della madre. Sullo sfondo di altre tragiche ed ordinarie dinamiche di vita, tra madri pazze o ultraborghesi e figli allucinati od opportunisti, o tra tentativi di suicidio e rapine surreali, o ancora tra battute di caccia finite in tragedia e matrimoni di plastica alternati a funerali mangerecci, Olive Kitteridge disegna e sviluppa il profilo di un personaggio sgradevole e disturbante, delineando ciò nonostante i contorni di una persona in realtà più umana (se a tale aggettivo volessimo davvero trovare un senso compiuto) di quanto apparentemente rappresentata. Una donna che, infatti, incarna difetti, insicurezze e tornaconti comuni e verosimili, e alla quale assomigliamo molto più di quanto vorremmo sperare.

Eppure, al sopraggiungere dei giorni della merla della propria esistenza, sconvolta dalla paura e dall’emozione di avvicinarsi alla fine, la vita di Olive ha un sussulto. L’incontro con Jack (Bill Murray), un uomo anche lui vicino al compimento dei suoi giorni, vedovo e disincantato, e il reciproco attrito di due solitudini disperate e votate al cinismo, smuovono, pur impercettibilmente, l’anima sepolta ma mai sopita di Olive Kitteridge. Infatti, abbracciata stretta a lui sopra un metaforico letto di morte, lei guarda fuori verso la finestra e alla fine, più a se stessa che all’altro, confida di non aver voglia di abbandonare questo mondo. Quello stesso mondo che pure la confonde, da sempre.

Allora, di rimando, mi è tornata alla mente una sequenza della parte introduttiva della Serie, quella in cui l’Olive insegnante, naturalmente severa e giudicante, esorta i suoi studenti con forza e decisione:

Non abbiate paura della vostra fame. Se ne avrete paura, sarete soltanto degli sciocchi qualsiasi” 

Ma allora quand’è che tu hai iniziato ad avere paura, Olive? Questo avrei voglia di domandarle.

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2 commenti su “OLIVE KITTERIDGE, La donna cresciuta nel freddo

  1. che bel pezzo! complimenti
    non vedo l’ora di vederlo (sarà il mio primo serial dai tempi di twin peaks…)

  2. Superlativa interpretazione di Frances McDormand, tornata agli splendori di Fargo (ovvero Il Potere Della Stoltezza) serie tra l’altro appena siconclusa, di cui speroleggere anchequi..:)

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