Spettatore più generoso che rigoroso, legavo finora il nome di Nina Di Majo a un dittico a “soggetto stagionale” (1999: Autunno, 2002: L’inverno) che costituiva nella mia percezione un piccolo, ma prezioso patrimonio autoriale. Autunno, sua opera prima, mi parve a suo tempo un lavoro assai interessante, l’autobiografia logorroica, sofferta e ironica di una ragazza della Napoli bene, che lasciava scoprire poco a poco un’analisi severa dell’intera borghesia partenopea in crisi a cavallo del millennio. Acerbo, certo (l’autrice aveva allora 24 anni) e un po’ troppo debitore di modelli vertiginosi (Moretti, in primis, ma anche Woody Allen e persino l’Hitchcock di Rear Window) ma col pregio di essere sincero e acido nella sua autocritica, privo di condiscendenze e facili consolazioni. In più quell’esordio recava il marchio nobilitante del self-made, dal momento che la Di Majo ne era, oltre che regista, anche sceneggiatrice, attrice protagonista e persino scenografa. Fu, quel film, trampolino di lancio per alcuni valenti professionisti del cinema napoletano anch’essi agli inizi, vedi il direttore della fotografia Cesare Accetta e il montatore Giogiò Franchini, oggi tra i più apprezzati in Italia.

La Di Majo stava, si può dire, nel giro giusto. Prima di Autunno si era fatta le ossa in mezzo alla nouvelle vague napoletana degli anni ’90: sin dai vent’anni era stata segretaria di edizione, assistente alla regia e aiuto di gente come Martone, De Lillo e Incerti. Poi la regia di vari cortometraggi, uno dei quali, Spalle al muro, premiato al Festival Sacher di Nanni Moretti, l’aveva proiettata verso l’esordio nel lungo con la benedizione del barbuto regista-attore.

L’inverno, chissà perché, lo persi al cinema, invano provai poi a recuperarlo ma pare sia tuttora introvabile. Ne ho letto in seguito qualcosa, che perlopiù insisteva sull’intransigente autonomia autoriale confermata dalla giovane regista, che dava vita a un film ostico, probabilmente imperfetto, ma di valore. Su di me ha potuto così esercitare un certo fascino a distanza, un po’ sulla scorta del gradimento di Autunno, un po’ per l’illusione personalissima, da devoto rohmeriano, che qualcuno in Italia, a Napoli, stesse cimentandosi in una nuova saga delle stagioni!

Sapere di Nina Di Majo in sella a un progetto come Matrimoni e altri disastri, un po’ di  mesi fa, dopo un silenzio di quasi otto anni, mi ha perciò molto sorpreso. Produzione medio-grande per gli standard italiani (Rai Cinema, tra gli altri), cast da commedia veronesiana (Buy, Volo, Littizzetto, Inaudi), virata decisa verso il cinema di genere: tutta una serie di elementi in forte contrasto coi precedenti. C’era, certo, la speranza che il peculiare umorismo distillato in Autunno potesse “sciogliersi” e sposarsi con i tempi e i modi della commedia mainstream, dando vita a un prodotto popolare ma non necessariamente compromissorio. Che l’autorialità della Di Majo potesse insomma agire dall’interno.

Il film racconta di Nanà (M. Buy), primogenita di una ricca famiglia fiorentina, donna colta e anticonformista, che a quarant’anni si ritrova single un po’ per scelta un po’ no. Lei non è mai stata troppo fortunata con gli uomini: ha alle spalle un lungo fidanzamento culminato con la presa dei voti da parte del partner e ora è innamorata di un fascinoso scrittore (M. Bakri) senza però che riesca a trovare il coraggio per dichiararsi. Vive con il suo gatto Marcel e un importuno ospite svedese fanatico del Dogma vontrieriano, gestisce una piccola libreria insieme all’amica Benedetta (L. Littizzetto) e dà ripetizioni di italiano a studenti di liceo. Da un giorno all’altro si trova coinvolta nell’organizzazione del matrimonio della sorella minore Bea (F. Inaudi), più carina e spigliata di lei, con un uomo, Alessandro (F. Volo), troppo guascone per non starle antipatico. I giorni che la separano dalla cerimonia cambieranno la vita di Nanà e di chi le sta intorno.

Fin qui il soggetto, sviluppato in sede di sceneggiatura dalla regista insieme ad Antonio Leotti (Radiofreccia) e a quel Francesco Bruni collaboratore da sempre di Paolo Virzì, adattatore del Montalbano televisivo e in passato spalla anche di Piccioni e Calopresti. L’ambizione neanche troppo nascosta dei tre era quella (guarda un po’!) di raccontare uno spaccato del nostro paese aggiornato all’anno 2010. Un’Italia in cui l’allentamento dei costumi, col suo portato di volubilità relazionale, più disinvolti divorzi e separazioni, famiglie allargate e quant’altro, avrebbe portato, insieme a una liberalizzazione salutare del vivere comune, anche un certo disorientamento, persino nei più aperti ed emancipati. Gli altri disastri del titolo sono infatti gli innumerevoli incidenti, scandali e “peccati” che Nanà scopre nel passato e nel presente della propria famiglia durante le settimane di preparazione del matrimonio di Bea.

Si vorrebbe insomma sofisticata la commedia della Di Majo, sia per lo spirito progressista e protofemminista che muove il plot, sia per l’ampio spazio riservato alle schermaglie tra i due protagonisti, Buy e Volo, che sono tipiche del sub-genere reso immortale da Grant-Hepburn, Allen-Keaton e da tante altre coppie mitiche. Ma di sofisticato in realtà c’è davvero poco. I modelli evocati sono lontanissimi e Matrimoni e altri disastri si avvicina piuttosto (e purtroppo) alle tante commedie italiane di derivazione televisiva che egemonizzano le nostre sale.

La scrittura fa leva su comodi e rassicuranti stereotipi, quasi si auto-impone di non disorientare lo spettatore proponendogli qualcosa di diverso da ciò che meglio conosce. Nessun guizzo è concesso: l’involuzione del discorso pare una scelta strategica ineluttabile sulla via che porta al riscontro del botteghino. La critica ad alcuni mali della contemporaneità (dittatura della TV spazzatura, impoverimento culturale ed etico delle nuove ge
nerazioni, scollamento sempre più accentuato del ceto intellettuale dal paese reale) è svolta così in maniera del tutto mimetica rispetto ai bersagli ed è in ogni caso talmente all’acqua di rose da risultare imbarazzante. Di più: se nonostante la sua pochezza quella critica riuscisse pure, miracolosamente, a smuovere qualche coscienza tra il pubblico, l’effetto sarebbe in ogni caso spazzato via dall’abbraccio finale che avvolge tutti i personaggi, che interviene a livellare e ad assolvere, a ricordarci tutti sulla stessa barca.

Emblematico in questo senso è il personaggio di Alessandro. Nella prima parte ci viene presentato senza troppi giri di parole come un intrallazziere opportunista, un arrivista sociale dai tratti fondamentalmente reazionari e razzisti. Sia chiaro: la caratterizzazione nemmeno sfiora una reale antipatia, quella spregevolezza, per intenderci, che qualificava invece i cialtroni di Sordi e Gassman della commedia all’italiana che fu. Questa misura esclude la possibilità che sullo schermo si crei un vero antagonismo (per esempio col personaggio di Nanà) e prepara lo spettatore alla “riabilitazione” di Alessandro che avverrà, nella seconda parte del film, senza che egli abbia però riveduta alcuna delle sue posizioni, all’insegna di un volemose bene che non taglia fuori proprio nessuno.

La sceneggiatura di Matrimoni e altri disastri è in sostanza un canovaccio-pretesto su cui si innestano da una parte delle gag estemporanee, dall’altra una morale immorale condivisibile sulla carta ma posticcia nello svolgimento. Le gag – alcune passabili, altre assai meno – sono ovviamente affidate ai due mattatori appositamente coinvolti nell’operazione, Volo e Littizzetto, a cui alternativamente fa da spalla la Buy. Ai tre si aggiunge l’imbarazzante comparsata del cineasta palestinese Mohammad Bakri, altrove regista di grande impegno (Jenin, Jenin) e interprete per Gitai, i fratelli Taviani e Saverio Costanzo, e che qui gigioneggia ridicolmente nella macchietta di uno scrittore più interessato al corpo che alla mente delle sue lettrici. D’altra parte la regia è assolutamente nulla, non solo (prevedibilmente) per quel che riguarda la mdp, ma anche sul versante della direzione degli attori. In sostanza nessuno recita: Volo e Littizzetto sono lasciati a briglia sciolta a rifare se stessi e i propri personaggi consolidati dal piccolo schermo, la Inaudi perlopiù piagnucola, di Bakri s’è detto. Rimane Margherita Buy, che non si discosta molto dal suo ruolo canonizzato di simpatica svampita in perenne credito sentimentale.

Quanto alla morale di cui sopra, essa è sintetizzata dalla scontata e usurata citazione wilderiana messa in bocca a Bea sul finire del film: “Nessuno è perfetto!”, si difende la ragazza dall’accusa di tradimento mossale, a ragione, da Nanà. Ma l’anticonformismo così declinato, a capo di un film così mediocre, non può che suonare falso, quasi una giustificazione intellettuale, un lasciapassare progressista per le scenette proposte fino a lì.

In questo quadro sconsolante sorprendono anche la sciatteria e il pressapochismo, che, perlomeno, in una produzione commerciale non dovrebbero avere ragione di esistere: eppure troviamo personaggi completamente buttati via (la stessa Bea, per esempio), siparietti da corto amatoriale (come quelli che vedono protagonista il decerebrato film-maker svedese ospite di Nanà) e persino qualche svarione tecnico.

Non è solo un brutto film, Matrimoni e altri disastri. La sensazione è quella di un film che chi ha fatto ha estorto alla propria volontà. Dietro la svolta di Nina Di Majo c’è una tragedia collettiva, quella del cinema e dei cineasti italiani in lotta per esistere: o si è Matrimoni e altri disastri o non si è.

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2 commenti su “Nina Di Majo 2.0 – matrimoni e altri disastri per sopravvivere?

  1. Complimenti Armando, un articolo ben scritto e ben argomentato. davvero una piacevole lettura notturna, grazie.

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