Come negarmi il fascino simbolico di Diego Armando Maradona? Non posso. Con lui ci troviamo di fronte alla narrazione di un mito: quello della morte e rinascita di una divinità. Ultima tappa, di questa altalenante avventura umana, nei giorni scorsi con l’ennesimo ricovero in ospedale per dipendenza da alcool. In lui si incarna la storia di un riscatto sociale collettivo. Dietro al Pibe de Oro c’è un ragazzino tarchiatello e basso, nato in una periferia poverissima, e su cui nessuno avrebbe scommesso. Quel ragazzino aveva una sola mostruosa capacità: fare la differenza su un campo di calcio. Non c’è sua giocata che non sia da recapitare al Tate Modern Art. Da vendere all’asta ogni suo gesto atletico. Insomma qualcosa di imperscrutabile, il Mozart del calcio.

Risi prova a raccontare i suoi primi quarantasei anni di vita. Impresa non facile. Coglie bene alcuni aspetti. Per esempio il rapporto esclusivo con la propria famiglia che è sempre con lui. L’egocentrismo smisurato, frutto anche di una celebrità, che il campione argentino non è in grado di gestire. La dipendenza dalla cocaina. Il film inizia proprio con un crisi di Maradona costretto ad essere ricoverato in ospedale. Poi un flash back ci riporta indietro, all’infanzia. C’è una scena che tornerà più volte nel corso del film: la caduta in un pozzo del piccolo Pelusa (soprannome datogli per la folta capigliatura nera) mentre cerca di recuperare un pallone. Insomma una sequenza metaforica con la quale si cerca di dare un’interpretazione alla vita che il regista racconta. Quel cadere in basso con un unico salvagente: un palla da calciare. Il regista in questa scena finale avrebbe voluto coinvolgere Maradona stesso che si era detto d’accordo, però l’ultimo giorno delle riprese non si è presentato. Le tappe successive della narrazione ripercorrono i suoi successi: dalla serie A all’età di sedici anni, per poi andare a giocare a Barcellona e a Napoli. E in mezzo le partite della nazionale Argentina che con lui primeggia nel mondo.

Come Risi stesso ha detto per la realizzazione del film è stato costretto a dei “paletti”. Per ricevere il consenso dalla Mano de Dios alcuni episodi della sua vita non sono stati trattati. È stata Claudia – la donna da sempre accanto a Maradona, anche se con lei si è sposato solo nel 1989 dopo la nascita delle figlie Dalma e Giannina, e con cui è divorziato. Lei ora gestisce i suoi affari – a negoziare i contenuti della sceneggiatura. Non ci sarebbero stati secondo il regista particolari problemi. O tagli che avrebbero impedito il suo lavoro. La preoccupazione maggiore era della figlia Dalma che aveva difficoltà a veder esposti in pubblico certi avvenimenti che riaprivano delle ferite. Insieme a questi “limiti” Risi ha esplicitato pubblicamente di aver voluto fare un film che andasse incontro allo spettatore senza troppa fatica. Una sincerità che meriterebbe un applauso. Fatto sta che il risultato finale risente di uno sguardo privo di profondità. Incapace di andare a scavare nella psicologia dei personaggi. La vicenda scorre giù come un bicchiere d’acqua, mettendo da parte un nodo dolente del personaggio, quell’autodistruzione generosa a cui si sottopone nell’intero corso della vita. Altrimenti detto: una esposizione di sé eccessiva che forma quasi un argine impermeabile al vuoto che nasconde. Ci sono delle scene durante l’adolescenza che ospitano segnali in direzione di una più ampia comprensione psicologia ma non sono seguiti come forse potevano. Penso al fastidio che il giovane Diego sente nei confronti di tanta gente che continua a poggiargli la mano sulla spalla in senso di complicità e saluto. Penso alla difficoltà che ha di esprimere i propri sentimenti, tanto da ripetere le parole di una canzone di sottofondo, per dichiarare il suo amore a Claudia. Mi paiono indizi, non seguiti da Risi, di una emotività problematica. Azzardata e non riuscita anche la similitudine fra sesso/amore/piacere e il ficcare la palla in rete.

Comunque la pensiate rispetto al comportamento di Diego, del tutto discutibile, io lo comprendo. Anch’io, come Marcos qui, ammetto di volergli bene, per le stesse le sue ragioni, pur non essendo argentino. C’è forse un scena di Maradona la mano di dio che mi ha fatto precipitare clamorosamente ai piedi del più grande calciatore del mondo: lo spogliatoio di Inghilterra Argentina ai mondiali del Messico del 1986. Diego non ha dubbi, da leader in campo qual era capisce cosa ci sia gioco. Galvanizza i compagni, li incita, li motiva. Quella partita va vinta ad ogni costo, per riprendersi le Malvinas, almeno sul campo di calcio. Diego con una doppietta strepitosa trascina la squadra alla vittoria. Il primo goal è quello famoso di mano. Azione così giustificata: “Rubare ai ladri non è reato”. Ma quando riguardi il secondo pensi che dio esista. Maradona parte da centrocampo e con undici colpi smarca tutti, pure il portiere, e segna. L’Argentina vince, l’Impero Britannico è battuto.

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3 commenti su “Maradona – La mano de Dio di Marco Risi

  1. MARADONA SOLO ITO E QST LO SANNO TUTTI ‘‘MARADONA 6 IL MIO MITOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO’‘ BY GENNARO……………………………

  2. Wa Maradò si o megli e Napl si na cosa grand p nuie sulu tu e può fà sti cos….si grand.Forza Napoli…..>

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