I fratelli Dardenne iniziano a raccontare le loro storie attraverso il teatro – siamo più o meno all’inizio degli anni ’80 – interessandosi allo stesso tempo alle possibilità offerte dal video quale strumento idoneo a documentare fatti, a raccogliere testimonianze

Nei video intervistano gente comune, operai in particolare, con l’intenzione di ricavarne dei ritratti in cui associare, all’elemento propriamente informativo, un’attenzione alla fisicità degli intervistati, ai loro corpi, alla loro espressività. Oltre a questa formazione sul campo – non hanno studi di cinema alle spalle – ci sono un mucchio di buone visioni fatte da ragazzi nel cineclub di città (Godard, Bertolucci, Rossellini, tra i loro autori preferiti). Questi diversi aspetti della loro formazione si sono riversati, coerentemente, nella successiva produzione cinematografica, nei film scomodi e intensi che hanno realizzato. Non a caso il loro sguardo critico e rigoroso, mai severo, sempre partecipato, si è soffermato ora sulla realtà degli immigrati (La promessa), ora sulle vittime del lavoro precario (Rosetta), ora sulle relazioni familiari da ricostruire (Il figlio). L’urgenza era quella di trovare un modo corretto ed efficace di mettere in scena ciò che vedevano. Lo stile che i Dardenne hanno creato – anche se, citando Eduardo De Filippo, gli stessi autori sottolineano provocatoriamente che “se cerchi lo stile trovi la morte, se cerchi la vita trovi lo stile” – è quindi un composto di spazio e materia, di luoghi e di corpi.

Corpi segnati ma vivi, tesi a sfuggire le proprie cicatrici interiori, che si muovono all’interno di uno spazio reale e che in modo confuso ed incerto, confliggendo con ostacoli e difficoltà, cercano in modo istintivo e disarticolato un’identità, un posto dove poter stare. Con il loro ultimo lavoro L’enfant, Palma d’oro a Cannes nel 2005, ci parlano degli outsider senza coscienza, ragazzi privi di punti di riferimento a cui la società riesce a fornire un unico modello comportamentale, l’affermazione individualistica, e un solo valore, quello dello scambio di denaro (significativo è il continuo passaggio di banconote di mano in mano). I Dardenne, con i loro movimenti di macchina esibiti, disturbanti, sempre sulle cose, seguono (alla maniera di Zavattini, e senza dimenticare la lezione di Rossellini) le azioni-non azioni di Bruno, un giovane sbandato che vive alla giornata, di piccoli espedienti. Bruno, che dice che “il lavoro è da coglioni” (in certi momenti ricorda la tenerezza anarchica del Michel Poiccard di Á bout de souffle), salvo poi essere obbligato a prestare il proprio lavoro in un racket potente e organizzato. Bruno, che vende il figlioletto Jimmy in uno dei suoi tanti piccoli affarucci, innocentemente si direbbe, e che, costretto a ricomprarlo, comincia ad accorgersi della sua esistenza, ad abituarsi all’”accadimento Jimmy”. E ancora Bruno, che per gran parte della storia non fa che attendere…

In questa storia di formazione l’attendere del protagonista, con la sua deliberata reiterazione, assume un valore (ri)conoscitivo. I registi, scegliendo di ripetere alcune azioni (come succedeva in Rosetta con il rituale del suo calzare e sfilare gli stivali), è come se definissero meglio un tempo, un ritmo in cui lo spettatore può ritrovare il percorso interno del personaggio. E la discontinuità tra il tempo morto dell’attesa e la convulsione improvvisa dell’istinto fa venire in mente il cinema di Cassavetes. Poca psicologia anche qui, piuttosto fatti. Fatti che assumono per il protagonista il valore di tappe conoscitive e che lo portano ad acquisire, al termine del viaggio, una coscienza di sé e degli altri. É un percorso verso l’assunzione di responsabilità quello di Bruno, che dal relazionarsi agli eventi in modo puramente e individualmente istintivo (l’istinto di sopravvivenza), passa, attesa dopo attesa, alla necessità di dover operare una scelta. Ed è solamente dopo aver sperimentato il dolore della perdita, il pericolo della morte di un compagno, che Bruno riesce a superare il suo blocco emotivo e morale ed a conquistare, finalmente, quella consapevolezza delle conseguenze delle sue azioni che gli permette di maturare una scelta, un pensiero. E, come spesso accade nei film dei fratelli Dardenne, è un pensiero lacerato ma allo stesso tempo connotato dall’idea della possibilità.
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