Cosa aspettarsi da un film che si chiama Poetry? Un titolo che, oltre a richiamare tutt'altro che il cinema, ci appare piuttosto ambizioso. Ad alcuni avrà fatto pensare al cinema di poesia di Pier Paolo Pasolini, il quale, in effetti, ambizioso lo è sempre stato, nelle sue operazioni letterarie come in quelle cinematografiche. Tuttavia, Pasolini poteva richiamare immediatamente, nei suoi spettatori, un consolidato pedigree di poeta riconosciuto e affermato. Perché arrischiare un accostamento al più blasonato dei generi letterari, e spararlo in primo piano, direttamente nel titolo? Eppure, a conti fatti, non si può dire che le attese che Lee Chang-dong suscitate con questa mossa siano deluse. Quella di Poetry è un'operazione piuttosto complessa e tutta impregnata, per l'appunto, di poesia. E' un film che offre più livelli di lettura, dotato di una straordinaria coerenza simbolica: dentro ci troviamo il percorso di formazione della protagonista Mija, anziana nonnina alla riscoperta della realtà, ci troviamo un neorealismo rivisitato in salsa orientale, ci troviamo uno straordinario rigore formale, e ci troviamo la poesia – la posia nella sua espressione verbale, e la poesia dello sguardo, dell'immagine, la poesia della riscoperta della quotidianità con occhi diversi, la poesia delle piccole cose da custodire. La poesia che la macchina da presa insegue e cerca di restituirci, inquadratura dopo inquadratura, movimento dopo movimento. E', in effetti, un film che cerca continuamente la poesia, Poetry, nella sua accezione di ricerca di espressione personale e di una dimensione più autentica del vivere in un mondo che viene percepito come brutto e degradato, ricerca della bellezza naturale in ogni contesto, andando a scovare, per esempio, tutte le sopravvivenze di vita naturale – fiori, piante, fiumi – che si offrono allo sguardo della protagonista tra l'asfalto e il cemento della città che domina le inquadrature di un film profondamente urbano.

In apertura, il film ci accoglie con un piano sequenza. Lentissimo. Un piano sequenza apre, e un piano sequenza  chiude. Un perfetto movimento circolare che segue un corso d'acqua, un fiume che si trascina lento e imperturbabile, come lento e imperturbabile procede il film nei suoi 135 minuti. In entrambe le sequenze, l'acqua trascina un corpo – un'Ofelia shakespeariana: la prima e l'ultima sequenza ci raccontano entrambe un suicidio, e i due suicidii si sovrappongono perfettamente nel finale. L'accostamento alla morte di un'immagine tradizionalmente associata alla vita, l'acqua,  è solo apparentemente ambiguo: in diverse tradizioni, la morte per acqua è interpretata come rito di passaggio e rigenerazione, vita che si trasforma in nuova vita. Anche in questo caso ci viene in mente Shakespeare – stavolta il mito della rigenerazione nella Tempesta. Una delle scene chiave del film – quella in cui la tenera nonnina passeggia per i campi, totalmente immersa nella natura, e raccoglie per terra delle susine che, scrive, si lasciano cadere e così si apprestano a nuova vita – ci aiuta ad avvalorare l'intepretazione in questo senso del gesto finale di Mija: la protagonista riesce finalmente a sciogliere il suo canto, e comporre la poesia tanto inseguita nel suo apprendistato poetico,  trascendendo direttamente alla forma poetica, sacrificando il corpo e trasformandosi in nuda e pura parola. E' puro canto che si fa vento, acqua, erba, frutta, attraverso l'immersione nel fiume: Mija si fonde totalmente con lo spirito della poesia. Se la poesia è stata, per Mija, fuga da una realtà di mortificazioni, deprivazioni e umiliazioni, con il passaggio finale questa fuga si compie in modo perfetto e irreversibile.

Ci troviamo così di fronte ad un personaggio che si realizza completamente in una forma d'arte, come realizzazione al termine di un percorso di sacrificio: un tema che abbiamo già visto recentemente, e mi riferisco nello specifico al Cigno nero di Aronofsky, che pure descrive il momento del compimento finale di un artista – una ballerina, in questo caso – che si concretizza in un gesto di perfezione conclusivo che è anche riscatto di una vita di abnegazione personale. I due film sono straordinariamente diversi: qui abbiamo per protagonista una simpatica vecchietta e di là una ragazzina che non riesce a crescere, qui un film che si dipana lento e minimale e di là un racconto tutto sangue e concitazione. Se Poetry è film che si svolge coi modi composti e melodici della poesia lirica, Black swan invece riprende modi e toni della tragedia, e se il passaggio di Mija a nuova vita scorre come un fiume pacifico e imperturbabile, c'è strazio e ferite a segnare ogni momento della vicenda interpretata da Natalie Portman, e anche il momento di immersione nella natura che conclude l'esistenza di Mija è decisamente altro da quello dell'auto-martirio che suggella il canto finale del cigno di Nina.

Eppure, tornando a Chang-dong e al suo film, se da una parte non possiamo non ammirare la straordinaria coerenza del suo lavoro sulla poesia – coerenza che si inserisce in una coerenza di fondo del suo percorso di regista, fatto di pochi film, ma tutti molto rigorosi – da un'altra le attese evocate dal titolo ci appaiono, per quanto non deluse, comunque non totalmente risolte: ben più felice, da questo punto di vista, il film di Aronofsky. C'è qualcosa, a film concluso, che ci lascia una sensazione di incompiuto: è, forse, lo straordinario personaggio di Mija, interpretato da una splendida Yu Junghee, che vola troppo in alto rispetto agli altri personaggi lasciandoli sullo sfondo, al punto da rendenderli quasi semplici funzioni narrative; forse, l'eccessiva lentezza e lunghezza, che appesantisce un film così delicato; forse, quello che non ci convince è l'aspetto troppo pilotato di determinate sequenze, che peccano di un didascalismo imperdonabile in un'operazione così raffinata. Ma comunque Poetry è film di  straordinaria felicità visiva, nella miglior tradizione a cui il cinema coreano ci ha abituati, e che va decisamente consigliato a tutti gli amanti della poesia in tutte le sue forme.

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