La parola è rigoroso. Rigoroso è l’inverno tra gli Ozark Mountains, nel Missouri, dove Jessup Dolly, marito e padre di tre figli, sembra scomparso nel nulla, ricercato dalla polizia dopo aver ipotecato la casa e tutti i beni di famiglia per pagarsi la cauzione e uscire di prigione. Rigoroso è il modo in cui esiste al mondo sua figlia diciassettenne Ree, rimasta sola a occuparsi di una mamma autistica/depressa e di due fratelli più piccoli, e a indagare, a modo suo, sulla sparizione del genitore. Deve produrre davanti alla legge le prove dell’avvenuto rigor mortis paterno per non perdere il tetto e il resto. È rigoroso, infine, il modo in cui Debra Granik, alla sua seconda prova da regista, affronta tale materia narrativa, prevenendo il melodramma e le facili commozioni e concedendo allo spettatore soltanto quel che di questa storia poteva non essere spettacolo.

Un gelido inverno è dunque il piatto titolo italiano di un film ruvido e luminoso come un diamante grezzo, premiato lo scorso autunno al 28° TFF e, prima, dalla giuria del Sundance, ma sconfitto pochi giorni fa nella sua avventura agli Oscar: a fronte di quattro candidature “pesanti” (film, sceneggiatura non originale, attrice protagonista, attore non protagonista), dal red carpet non ha portato a casa nemmeno una statuetta. Ma ci mancherebbe altro: nell’inospitale Missouri non ci sono probi re di guerra né ragazzacci-prodigio. Winter’s Bone (questo il ben più corposo titolo originale) va dritto all’osso dell’inverno terribile di Ree Dolly, lo spolpa dell’inessenziale e ci mostra crudele ciò che rimane: una ragazzina in cerca dei resti (l’inglese bone = osso, ma al plurale anche resti umani, ndr) di suo padre perché le servono.

Con un occhio al cinema dei Dardenne e l’altro all’antiutopia seventies e tutta americana di un Deliverance/Un tranquillo weekend di paura, la Granik pone dinanzi al nostro sguardo attonito un mondo brullo che viaggia spedito verso la de-umanizzazione. Immersa in una Natura ostile che costantemente ricorda all’Uomo quali siano le reali gerarchie in campo, la vita, tra le montagne e i boschi del più remoto Missouri, è ridotta a quotidiana lotta per l’autoconservazione, l’essere umano a bocca da sfamare, la cui sola avventura è riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena. Tutto ciò che si frappone al progetto-sopravvivenza è escluso, a  partire dai sentimenti, che vanno repressi o comunque subordinati alle più cogenti necessità. Così, le sole aggregazioni umane possibili qui sono di stampo malavitoso, comunità chiuse all’esterno, associazioni a delinquere di matrice tribale, omertose e violentissime, che governano l’agire collettivo con leggi arcaiche e non esitano a punire chi, come il padre di Ree, sgarra.

È un’America a noi (ma anche a loro) sconosciuta, che non solo è fuori dalla rappresentazione consueta diffusa dagli schermi del mainstream, ma è altro anche dalla carineria indie in voga nell’off-Hollywood degli ultimi anni. Un’America nera e livida splendidamente raccontata dalla fotografia di Michael McDonough e dalla colonna sonora minimale di Dickon Hinchliffe; un West moderno deprivato del mito della Frontiera – di qualsiasi mito. È qui che Ree, che ha i lineamenti dolci e gli occhi azzurri che ardono di Jennifer Lawrence, combatte a testa bassa per difendere la continuità del suo branco. “Mi sentirei persa senza il peso di voi due sulle spalle”, dice a un tratto ai due fratelli. Bussa di porta in porta, prende calci e pugni e sputi dai membri del suo clan per cercare un padre morto e colpevole fino all’osso di cui si vergogna. Come Rosetta, troverà, forse, anche le tracce di un’affettività imprevista.

Non si dimenticano: il volto dolente e ossuto (ancora!) di John Hawkes, i fratellini di Ree che giocano inconsapevoli e irriducibili alla violenza che li circonda, la scritta “Thank you – Have A Nice Day” stampata ben in vista sulla busta della spesa dentro cui la protagonista trasporta, nel finale, quel poco che di suo padre ancora le serve.

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2 commenti su “La vita all’osso – Un gelido inverno

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