Le belle famiglie, le chiamava Ugo Gregoretti in un suo vecchio, per nulla ambizioso eppure interessante film. Era il 1964, e la famiglia, ce lo insegna Risi, ce lo ricorda Scola che c’ha pure intitolato un film, è sempre stata tema da commedia italica d’autore. E quindi, per carità, nessun problema, solo qualche doverosa riflessione sul perché, da un po’ di tempo a questa parte, diciamo dall’inizio di questo 2010, ma forse pure da un pò prima, il cinema nostrano di potenziale largo consumo non parla che di famiglia. Se è vero che tale concetto è potenzialmente un bel volano per parlare del presente, nel senso che è un'ottima finestra per guardare quanto accade dentro e fuori dal cortile, è vero pure che questo affollamento parentale puzzicchia un pò, così onnipresente all’improvviso nelle dolenti sale nostre, di ripiegamento sull’intimo del pubblico. Su quello cioè, che ogni persona, nel bene e nel male, conosce benissimo. E allora ci chiediamo: si potrebbe gridare all’ennesimo atto di indebolimento del cittadino/spettatore, attraverso un drammatico inconscio artistico correlato a un progetto extra-cinematografico e politico dilagante? Mah.. Si potrebbe pensare a un altro caso di maltrattamento di quel disgraziato pagante intontolito sempre meno soggetto e sempre più oggetto?

Ce n'è abbastana per ipotizzare una sottile e furba mancanza di rispetto per il pubblico che avviene attraverso l’identificazione facile che gli si propone, o forse impone, coi problemi narrati? Giocando meschini ancora una volta con lo scioglimento delle sue emozioni, che è tanto facile per quel povero guardante, quanto è comodo per gli autori ubriacati da un regime invisibile evitarsi rogne, fatica e problemi? Ci viene da pensarlo perchè viviamo in un paese nel quale non si corre rischio alcuno nel privarsi del compito di allenare i propri spettatori a fare i buoni cittadini. E’ così assurdo, allora, pensare che i nostri registi popolari non si pongano minimamente il problema di rendere i propri referenti meglio consapevoli? Forse no, o forse sì, e questo pezzo, infatti, parte da una domanda, vuole suscitare una riflessione, e non ha una risposta chiara, almeno adesso. Perché non inizia da una convinzione che altri hanno, così sicuri di aver compreso ogni sfumatura del nostro sistema. Se la trovasse, tuttavia, e l'autore ne sarebbe felice, lo farebbe dopo aver ripassato, in compagnia del lettore, cercando sempre di non annoiarlo, tutti i film popolari recenti che parlano dell'argomento famiglia. Insistiamo, però, perchè potrebbe sembrare, a guardare questa strana coincidenza, e perdonateci il cattivo pensiero, che i nostri registi popolari si siano piegati al vento della società italiana, e che abbiano obbligato il loro cinema ai metri quadrati contemporanei riempiti di nuova tecnologia e di vecchie, e quasi care, discussioni.

Cerchiamo di capire se il nostro dubbio, la nostra impertinente sensazione – che ci sia un abuso volontario di famiglia – sia solo frutto di un teorico dovere intellettuale, anche un po’ snob, per cui il cinema è solo strumento politico e mai piacere e basta. O se il sospetto sia lecito, nell’Italia del sospetto, appunto, e del sopruso, dell’illegalità sempre più legalizzata, del complotto immaginato ad ogni angolo, della sempre più obbligata dietrologia. I film che analizzeremo, tutti realizzati nell’arco di pochi mesi, da parte di autori già affermati, già famosi e già strutturati, sono una considerevole manciata. Eccoli: L’uomo nero di Sergio Rubini, dicembre 2009; Io, loro e Lara di Carlo Verdone, gennaio 2010; La prima cosa bella di Paolo Virzì, gennaio 2010, Baciami ancora di Gabriele Muccino, febbraio 2010; Genitori e Figli di Giovanni Veronesi, febbraio 2010; Mine vaganti di Ferzan Ozpetek, marzo 2010; Happy family di Gabriele Salvatores, marzo 2010. Sei commedie e un melodramma, chiamiamolo così, corale e involontariamente comico, almeno a tratti. Sette film compressi nel giro di quattro mesi scarsi, tutte pellicole sul tema della famiglia. Che è argomento sentito e sviscerato, più male che bene, visto che l’opinione pubblica si modella con lo strumento che peggio informa e forma il paese. E’ giusto parlare di famiglia, in un certo senso, perché la famiglia è un pilastro fondamentale della casa sociale, e c'è il problema delle coppie di fatto, c'è il problema non problema che ci si sposa sempre meno, che ci si separa sempre di più, e c'è la cosiddetta famiglia allargata. C'è il problema, reale e drammatico, che i figli faticano a diventare adulti, che entrano sempre più tardi nel mondo di un lavoro che non c’è. C'è il problema che campano contando sui genitori, se non sui nonni, e che in cima ai pensieri e alle preoccupazioni dei genitori stessi, e neanche a torto, ci siano proprio figli sempre più marziani, dipinti, forati, esangui e divisi in mille tendenze. Oppure coi capelli bianchi e niente in mano, con problemi fuori tempo massimo che nessuno vuole ascoltare, gli stessi che i genitori hanno affrontato in tutt'altro modo, perchè la loro società era un'altra, anche qui nel bene e nel male. Perché, però, scusate l'insistenza, tanta famiglia all'improvviso? Ma soprattutto in che modo si parla di famiglia in questi film? Non può essere che dietro l'attualità del tema ci sia la volontà di non toccare altri problemi, lo stesso attuali e magari più importanti?

Partiamo con Rubini, L'uomo nero, film più che gradevole, dipinto con tinte efficaci e dedicato a un tema eterno come quello del padre. Rubini torna su un’Italia che non c’è più, altra tendenza del cinema italiano contemporaneo, diciamo dai tempi de La meglio gioventù in poi. Ed anche in questo caso il bene e il male sono fusi e confusi. Perchè tornare sul passato e costruire col cinema la memoria storica è sano e giusto, solo che dopo arriva sempre puntale la maniera, e allora non sai più se dare ad un determinato evento un valore positivo o negativo. Perchè ecco che nel giro di poco tempo il cinema italiano si è riempito di Fiat 500, giradischi e canzoni di Rita Pavone. Torniamo a Rubini, però, che gioca con la propria autobiografia e con qualche omaggio al suo maestro Fellini. Ecco un Sud arcaico e pieno di sole, non contemporaneo perchè l'opera è ambientata negli anni '60, con la famiglia che guarda in tv il primo passaggio di un grande film americano: La fiamma del peccato. Un Sud di architetture affascinanti, quello di Rubini, e di pietre antiche arroventate dal sole. Un Sud da ammirare con piacere, una Puglia vivace, si, e pure bellissima, ma vacanziera, attimo di fuga per lo spettatore, che con Rubini si diverte e si emoziona, ma che con lui rinuncia ad indagare il proprio quotidiano, visto che le sue donne sono diverse da quelle pittate con maestria ed onestà dall’autore pugliese. Film da promuovere per qualità, ma da bocciare nell’indagine dei rapporti umani e sociali contemporanei. Film bellino, L'uomo nero, anzi bello, in costume ma non di costume. E’ assurdo tacciare Rubini di codardia ed omologazione, il suo film è valido, stia tranquillo, ma è senza tempo. E’ un fil
m sulla libertà, sul coraggio di rompere con l’immobilismo culturale portatore di sofferenza e frustrazione. E’ un film sul potere della fantasia e della creatività, che vale anche tra cento anni, anzi, tra cento anni varrà più di oggi. Perchè di oggi Rubini non ci parla.

E passiamo a Verdone, che gira un film più che divertente, saldando gag di grana grossa a qualche utile discorso sull’oggi. Il buon Carlo sussurra che l’individualismo e il narcisismo regnano dovunque, ormai, e per ciò anche tra i tramezzi e i lavandini, tra i cassetti ed il citofono. Verdone fa il suo cinema, ci fa ridere perchè è simpatico, e perchè è venuto su con pane, talento e buoni sentimenti. Stavolta, addirittura, libero dalle pressioni delaurentisiane, ribadisce che la nostra società è fatta di gente che non si sa ascoltare. Che non ha nessuna voglia di aiutare qualcun'altro, perchè il proprio dramma sembra enorme, anche quando non lo è, e il proprio tempo per risolverlo sembra sempre troppo poco. Come dargli torto? Soprattutto considerando che si chiama Verdone, e che bisogna essergli grati già parecchio per le mille risate che ci ha consentito da trent'anni ad oggi, e che incaricare lui di sbatterci in faccia i problemi principali della nostra società è quantomeno ingiusto? Promosso il suo film che è semplicissimo e non emozionante, leggero eppure sincero, molto relativamente autoriale, ma a modo suo parlante.

E passiamo a Virzì, che è l'unico capace di fare la commedia all'italiana. E che di presente ci ha parlato varie volte, già dai tempi di La bella vita, quando raccontava la fabbrica e la disoccupazione. Per non dire di Tutta la vita davanti, non il suo miglior film, ma il più deciso nella scelta di affrontare chiaramente un tema sociale fortissimo: il lavoro contemporaneo. Di recente anche Virzì, facendo commuovere quattro quinti di paese, ha deciso di rannicchiarsi sul mondo degli affetti primari, ed ha puntato dritto al cuore dei rapporti umani: il legame con la mamma. La prima cosa bella, appunto, come dice la canzone. Ma Pure Virzì torna agli anni '70 e di quegli anni non ci dice nulla, se non riproponendoci colori ed indumenti. Il suo calorosissimo e coinvolgente film è tutto chiuso dentro i personaggi, e come loro non riesce ad antrare in rapporto con il proprio tempo. La prima cosa bella ricorda ancora una volta quanto la famiglia condizioni il nostro vivere, e ce lo fa capire in maniera straordinaria, ma è un ragionamento generale, o comunque legato ad un'Italia di quarant'anni fa, che poco c'entra con quella attuale. Come prendere questo salto virziano nel tempo? Parentesi di mezza età necessaria a fare i conti autoriali, una volta per tutte col proprio passato? Sempre che nel film ci sia qualcosa di autobiografico? Oppure ripasso di come era provinciale e bigotto il nostro paese nei primi anni '70? E va bè, ma che ce frega? E lo dice uno che con questo film si è emozionato, perchè Virzì è bravo e perchè la mamma è sempre la mamma.

E prendiamo Muccino, e facciamoci altre domande. Il regista afferma che a un certo punto della vita, oggi, o ti accontenti di amare le persone che ti sono vicine, donne e figli se ce li hai, oppure t'attacchi al tram e vaghi per tutta la vita con una sbronza disperata addosso. Può darsi che abbia ragione, ma il suo problema è che la parabola implicita alla fine del film non è sostenuta da un'analisi efficace, e i suoi ragazzi inquieti, ormai omoni fatti, non hanno molto di paradigmatico e sembrano i protagonisti di un documentario sugli amici di Muccino, e su Muccino stesso. La sincerità e la buona fede sembrano esserci, ma al regista romano/americano manca la capacità di raccontare, di colpire nel segno. Un consiglio: si cerchi uno sceneggiatore bravo, perchè con la sua mano può fare buone cose.

C'è poi Veronesi, il più appassionato di botteghino del gruppo. Già da tempo venduto al sistema, prende il presente e lo sfrutta, limitandosi ad elencare i fatti, tenendosi ben alla larga da qualsiasi indagine concreta. Le sue conclusioni che "la famija è sacra", come diceva un personaggio del mitico Compagni di scuola, sono affrettate e non poggiano su un racconto minimamente efficace e dignitoso. Il merito migliore del suo pessimo istant-movie è quello di stare sul pezzo, il limite peggiore è quello di non aver sfruttato minimamente l'occasione. Sciatteria, superficialità, saccheggio, ricerca della gag e nulla più. Incapacità autoriale? Certo, se non fosse che in passato Veronesi ha girato un paio di filmetti carini e interessanti. Furberia, piuttosto, convinzione che un pubblico maleducato vada trattato per quello che è, e che se l'Italia va così, e se il televisionismo impera, allora al cinema basta copiarne la lezione. Anzi, a fare le cose con criterio ci si rimette e basta, e se la gente è abituata male, perchè rischiare offrendole qualcosa di buono?

Passiamo ad Ozpetek, per cui vale il discorso di Rubini. Sud esotico, famiglia alla Pietro Germi, parabola sensuale e divertente, sì, ma più confusa in un messaggio senza tempo rispetto al film di Rubini. Ozpetek è bravo a creare atmosfere e personaggi, ma la sua riflessione manca di chiarezza e precisione, e qualche dubbio sul suo film rimane. Meglio Salvatores, per fortuna ben al di sopra del suo recente Come dio comanda. Happy family è gradevolissimo e originale assai. Il messaggio è chiaro: la leggerezza salva, se basata sulla consapevolezza, sul placido ragionamento, sull'amore per se stessi e per i propri sogni. Happy family è assolutamente in buona fede, è un modo sconosciuto di fare la commedia, un film leggero ma tutt'altro che evanescente, un film atipico sul presente e aperto verso il futuro, senza moralismi nè didascalie. Un film fatto di sano ottimismo. Ecco il cinema italiano sulla famiglia, fatto da autori di diversa psicologia e talento. Qualcuno fa il furbo, qualcuno fa il suo, qualcun'altro riesce a darci un insegnamento e una speranza. Noi chiudiamo questo pezzo senza aver dato una risposta precisa ai nostri soliti sospetti. Ma qualche imputato lo scagioniamo e gli chiediamo pure scusa. Qualcun'altro lo portiamo a processo, anche se siamo convinti che i giudici paganti lo assolveranno, e ci daranno dei piemme polticizzati in mano alla sinistra, che parla tanto e non combina mai nulla. E' il nostro paese, chissà per quanto ancora…

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One thought on “La famiglia nel cinema italiano di inizio 2010: da L'uomo nero a Happy Family

  1. Complimenti, un pezzo molto interessante. Quello che mi viene da chiedermi è: chi è che eventualmente cospira per renedere gli spettatori italiani sempre più distratti dai loro problemi quotidiani? E’ una sorta di autocensura degli autori o sono i produttori che scelgono solo certi temi? o addirittura ci sarebbe un grande vecchio che tira le fila di tutto? O non sarà che anche i cosiddetti autori hanno cominciato a perdere colpi? Forse il problema più generale è che non si riesce più a VEDERE veramente la realtà, non si riescono a fare le connessioni invisibili tra le cose e tra i fatti, e dunque non si riesce a raccontarli. Sartori, in un recente articolo sul corriere, sostiene che la nmaggiorparte degli italiani, ormai totalmente disabituato a leggere, pensa che sia vero, che esista soltanto ciò che si vede, che quindi può essere trasmesso dalla tv. Forse questa sindrome colpisce anche i registi di cinema, che quindi ripiegano su ciò che conoscono, che è stato sempre raccontato… è un discorso lungo…

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