C’è un curioso punto di contatto tra due film usciti nelle scorse settimane, entrambi passati a Cannes e che, per motivi diversi, hanno sollevato un polverone che comincia a dissolversi soltanto ora. Il minimo comune denominatore, tra Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann e La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, a parte il pomposo aggettivo, sono le feste che scandiscono entrambe le pellicole.
Le atmosfere, nelle forme e nei contenuti, non potrebbero però essere più diverse. Se da una parte lo spettatore è “invitato” in un mondo sfarzoso, colorato, magari eccessivo e volgare ma in ogni caso attraente, dall’altro lato esce quasi disgustato dalla sguaiatezza e dalla cafonaggine dei modi.
La macchina da presa di Luhrmann si muove freneticamente, come in un videoclip, tra luci sfavillanti, arredamenti lussuosi e ostentazioni di ricchezza, indugiando sempre su corpi belli, giovani e (almeno in apparenza) felici. Si potrebbe quasi pensare – pienamente consapevoli del forte rischio di blasfemia – a una sorta di montaggio delle attrazioni (cifra stilistica che caratterizza peraltro tutto il cinema dell’autore australiano, da Moulin Rouge in giù). Da Gatsby, sembra essere il messaggio, ci si diverte davvero, sono tutti scatenati e l’atmosfera è travolgente. È una metafora, volendo, del sogno americano: si tratta di un microcosmo artificiale, di una continua carnevalata, ma come sarebbe bello andarci almeno una volta.
Sorrentino, al contrario, sembra mettere la sua regia – consapevolmente e a dispetto del titolo – al servizio della bruttezza. Primissimi piani su corpi grassi e sudaticci, volti segnati dalle rughe, facce tristi. E una lentezza esasperata in ogni singola scena, in ogni dialogo.
In quella villa poco fuori New York, l’horror vacui è tutto di Jay Gatsby/Di Caprio. E comunque tutto sta in piedi per una “nobile” causa: riconquistare Daisy e far rivivere il passato. I suoi ospiti sono spensierati, si godono la festa, anche se è facile immaginare che non siano tutti amici, che ci siano reciproci interessi e molta oscurità “dietro le quinte”. Un personaggio, per dire, come quello di Carlo Buccirosso, che esalta davanti a tutti la sua trentennale fedeltà alla moglie e poi va a importunare con battute triviali la prima cubista seminuda che incontra, non potrebbe mai entrare a casa Gatsby. O ne sarebbe cacciato a pedate.
Il jet-set romano di cui Jep Gambardella (Tony Servillo) è leader indiscusso, invece, ricorda più che altro un cimitero degli elefanti, se questi non fossero creature nobilissime. Questi party volgari e malinconici sono animati da una corte dei miracoli fatta di fenomeni da baraccone, mediocri e falliti a vario titolo, che passano il tempo rivolgendosi critiche al veleno e dimostrando di conoscere l’uno gli scheletri nell’armadio degli altri, in una sorta di patto di non belligeranza. Memorabile in questo senso l’attacco di Servillo all’intellettuale “impegnata”: siamo tutti dei meschini, noi lo sappiamo e non ci raccontiamo storie, tu invece…

gatsby

Sorrentino stesso sembra non avere alcuna pietà per i suoi personaggi: mette in scena, in questo caso, un montaggio delle repulsioni in cui sembra proprio non voler salvare nessuno. Ancor più inspiegabile, quindi, l’entrata in scena a una mezz’oretta dalla fine del film, con il pubblico già abbastanza provato, del personaggio della “Santa”, che vorrebbe (?) costituire una definitiva, improbabile catarsi.

In conclusione, i party nella villa di Jay Gatsby segnano in modo indelebile la vita e i ricordi di Nick Carraway, e presumibilmente di molti altri dei partecipanti. In uno dei suoi estenuanti monologhi in giro per Roma, dal canto suo, Gambardella racconta di aver sempre desiderato “il potere di far fallire le feste”: l’impressione, però, è che non abbia bisogno di sforzarsi più di tanto per riuscirci

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One thought on “La bellezza e la volgarità. Le feste di Jay Gatsby e di Jep Gambardella

  1. ma hai letto The Great Gatsby?
    non hanno niente in comune! Uno ha un passato oscuro e Jep è semplicemente pieno di noia!

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