L’immagine del manifesto del Nastro bianco, il nuovo teso, lucido capitolo di Michael Haneke sull’umanità che genera mostri e orrori sotto la geometrica e compatta superficie di realtà imperscrutabili, è indicativa di un modo di sentire e di vedere che contraddistingue il cineasta austriaco, capace di avvicinarsi abbastanza fino a scrutare in profondità il soggetto che vuole riprendere, mantenendo al tempo stesso una distanza emotiva e psicologica che avvolge tutto in un’aria di sconcertante ambiguità, di annichilente impotenza.

Quell’immagine rappresenta il volto di un bambino che vive in un piccolo villaggio rurale della Germania alle soglie della prima guerra mondiale.  Il ragazzo, nell’età di passaggio verso la pubertà, è il figlio del rigido pastore protestante del villaggio e, l’espressione mortificata, umiliata del viso con gli occhi sul punto di esplodere in un pianto silenzioso, è rivolta proprio al padre il quale lo sta duramente confrontando rispetto alla recente scoperta da parte del giovane della propria sessualità attraverso la masturbazione, qualcosa che nell’adolescenza esplode come una necessità improvvisa e incontenibile e che ogni tipo di confessione del cristianesimo vede come un male da reprimere e punire, perché distoglie dalla tensione morale che conduce verso la perfezione e,quindi, verso Dio.

Ovviamente il discorso del padre pastore è tutto in “negativo” portando d’esempio il caso di un giovane vittima dei suoi istinti peccaminosi nella stessa misura in cui si potrebbe raccontare una possessione demoniaca. E mentre questo racconto dell’orrore procede, la mdp rimane fissa, immobilizzata sempre e solo sul primissimo piano di quel volto, come a volerne fissare dentro la psiche l’eco terrificante delle parole pronunciate dal genitore, il quale  elimina nel tono di voce ogni possibilità di umana compassione, sottolineando quel senso di contraddizione, di spaccatura insanabile che attraversa tutto il film. Il rilievo plastico, esaltato dal rigoroso bianco e nero, dei corpi, dei paesaggi della smunta campagna tedesca, delle azioni quotidiane compiute dai contadini piuttosto che dal padrone feudale e dalla sua corte che tiene in pugno il villaggio e dai bambini che vanno a scuola, è calato in un’atmosfera straniante, astratta, da teorema ideologico teso a suggerire come anche il più insignificante, ordinario gesto compiuto in privato abbia delle ripercussioni sul mondo esteso rispetto alla propria comunità di appartenenza, il male che contagia, si insinua  come sospetto, paura, isolamento  e che proprio per questo può essere
suggerito e non mostrato, di certo non spiegato. Non spiega nulla, infatti, la voce narrante del maestro del villaggio, unica figura relativamente positiva del racconto, si limita esclusivamente a ricordare, anche qui  con una precisione ed una competenza che non tradiscono alcuna emozione, neanche nell’evocare l’immagine tutto sommato più felice e serena, quella della passeggiata sul calesse con la graziosa fanciulla che sarebbe poi diventata sua moglie.

Tuttavia l’incombente minaccia dell’evento luttuoso, della violenza coercitiva e punitiva è sempre in agguato e la capacità di Haneke di tradurre le radici profonde dell’inquietudine e del disagio nel costante pericolo dell’incolumità fisica e psicologica rimane tanto sublime, magistrale nella forma quanto sconvolgente e respingente nel contenuto. Basti pensare alla famiglia linda e pulita di Funny Games, massacrata da due psicopatici seriali senza ragione, perché quello che fa orrore è che i carnefici hanno lo stesso aspetto, la stessa origine culturale e sociale, parlano perfino come le loro vittime. La società non solo genera al suo interno i mostri che la distruggono ma non è neanche più capace di riconoscerli, di distinguerli, come il Daniel Auteil di Niente da nascondere che non è in grado di identificare l’autore dei video ricattatori che lo perseguitano e ne svelano il passato ambiguo, come l’Isabelle Huppert de la Pianista che confonde la propria tendenza masochistica con la ricerca di una relazione amorosa e svela, sotto le parvenze raffinate e sensibili, il lato brutale, sadico ed ipocrita del suo giovane amante.

Questa volta Haneke si è spinto probabilmente in una direzione che non lascia né lo spazio né il tempo per la speranza o il riscattato, perché i primi portatori del contagio del male e della violenza sono quei bambini raccontati molto spesso come testimoni muti, sconcertati, vittime innocenti della follia e delle abiezioni del mondo adulto.
A questo proposito torna nella memoria cinefila l’immagine forte dei bambini figli degli “accattoni” affamati e feroci di Brutti,sporchi e cattivi  che Ettore Scola chiudeva dentro una gabbia/parco giochi di una bidonville romana per fissarne il senso di smarrimento e di abbandono. Anche i ragazzini di Haneke  resteranno nella memoria cinefila, ingabbiati e condannati in un’oscurità dell’anima ereditata direttamente dalla sporcizia e dalla cattiveria serpeggiante sotto le spoglie dell’autorità e del perbenismo. Ed è  fallimentare l’educazione rigida e repressiva del pastore  che innesta nei figli più grandi una catena di atti punitivi verso i membri più deboli e fragili della comunità (che si tratti di una debolezza evidente come nel caso del figlio down della levatrice o delle fragilità nascoste dell’apparentemente rispettabile medico del villaggio), cosi come appare inconcludente la volontà di capire, attraverso il dialogo ed il ragionamento, del giovane maestro, la cui immagine alla fine scompare mestamente, lasciando alla sconsolata voce narrante il compito di chiudere il cerchio intorno a quella comunità chiusa e ai suoi piccoli crimini irrisolti, quando il grande crimine della guerra è già esploso e il contagio del male è ormai divenuto inarrestabile.

Se la madre divorziata, arrabbiata e vendicativa di Brood-la covata malefica, uno dei melodrammi horror più disperati di David Cronenenberg, generava tramite partenogenesi dei figli “mostri”, frutti corrotti dei sui sentimenti negativi, i bambini di Haneke sono i prodotti degenerati della civiltà che si è data delle regole e dei precetti ridotti a maschere convenzionali con cui camuffarsi per coltivare in segreto la barbarie. Ma forse c’è un’immagine nel film di Haneke che lascia un sussulto di speranza: il figlio più piccolo del pastore che porta al “signor padre” un uccellino ferito e chiede di poterne avere cura per poi lasciarlo nuovamente libero. Un momento di cinema che ci riconcilia per un attimo  con la vita e allontana lo spettro della morte.

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5 commenti su “Il Nastro Bianco-gli orrori senza tempo dell’umanità di Haneke

  1. bellissima recensione, hai perfettamente descritto le emozioni che ho provato guardando questo capolavoro, bellissima davvero. Haneke precedentemente non mi aveva mai convinto completamente, ma questa volta l’ha fatto. E’ un film ipnotico e terribilmente mortificante nella sua incompiutezza, un film che fa riflettere sul destino dell’umanità e sugli artifici dei suoi principi morali e perchè no? Anche sulla ricerca di un Dio praticamente distante, forse inesistente, di fronte a una natura umana ormai sviluppata all’interno di una sopraffazione tra classi differenti. La scena in cui i bambini rubano lo zufolo al bambino del padrone è fondamentalmente simbolica, è inquieta come la natura che li circonda, questo fa male.

    Saluti!

  2. Anch’io sono d’accordo su tutto (la descrizione del disagio che si prova a guardare questo film è enorme come hai ben descritto) tranne sul titolo: perché orrori senza tempo? Credo, è una mia impressione, che intenzione di Haneke sia stata descrivere quella che sarebbe poi diventata la gioventù nazista. Come se le vittime di padri così terribili non potessero fare altro che diventare violenti e servi ad un tempo…

  3. secondo me Haneke è più interessato al simbolico e all’universale che all’analisi di un periodo storico preciso. E’ vero che quei ragazzi saranno la futura gioventù nazista, ma il film sembra più suggerire la potenziale banalità del male latente in persone (deboli: introiezione del senso di colpa e coazione a ripetere la violenza subita) frutto di un tipo di educazione così repressiva. Il film si relaziona con il concetto di assoluto, tentazione che attecchisce nei contesti (collettivi e individuali) più diversi, criticandolo molto profondamente. I personaggi vengono rappresentati a una dimensione, senza ombre. Film molto bello, anche se forse troppo freddo, troppo apertamente dimostrativo.

  4. Anch’io ho dato questa chiave di lettura,nel senso del simblico ed universale, per qesto ho usato le parole senza tempo e umanità.Ho sentito che questo film poteva parlare del nazismo come della società in cui viviamo oggi, per questo mi ha fatto così male perchè parlava di quello circonda,delle nostre paure più profonde che generano i mostri

  5. Grande, grandissimo film, mi ha ricordato Buñuel, la crudeltà e la precisione di Don Luis nel descrivere la borghesia e la sua ipocrisia velenosa e assassina.
    E – vedendo scorrere i titoli di cosa – ho notato che il grande Jean Claude Carriere, sceneggiatore di Buñuel (Bella di giorno, Il diario di una cameriera, La via lattea, il fascino discreto della borghesia, il fantasma della libertà e quell’oscuro oggetto del desiderio) compare nei titoli come sceneggiatore.
    Ho cercato nei cast e credits dei siti italiani ma non compare da nessuna parte. Pensavo di essermelo sognato, poi cercando ancora un pò ho trovato su screendaily un esplicito riferimento a carriere come “screenwriter consultant”.
    Mi è sembrato molto importante segnalarvelo.

    http://www.screendaily.com/reviews/cannes-reviews/the-white-ribbon/5001529.article

    Un abbraccio a tutti
    Luca

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