[***12] – Ancora una volta per Aronofsky il corpo come pagina su cui imprimere i segni dell’esistenza, delle proprie lotte personali. Corpo come primo e più immediato testimone della dura battaglia che comporta il trascendersi per raggiungere una sintesi inedita. Pagina su cui trascrivere brutalmente i segni evidenti che testimonino l’avvio e le fatiche, non solo fisiche, che portano ad una trasformazione, ad una nuova sintesi contemplata precedentemente con timore.   

Il cigno nero vede Nina, una sorprendente Natalie Portman, impegnata in una compagnia di balletto a New York. La prima ballerina e stella ‘discendente’ Beth (una Winona Ryder con centellinate apparizioni che sa di Gloria Swanson in Viale del Tramonto) è stata fatta fuori, e così Nina prende il suo posto per il balletto che apre la nuova stagione: Il Lago dei Cigni. Nina dovrà interpretare l’innocente e fragile Cigno Bianco e contemporaneamente il sensuale, aggressivo e malefico Cigno Nero.

Nel Leone d’Oro di due anni fa c’era il wrestler, quest’anno Aronofsky torna in un ambiente artistico, quello della danza, considerato molto più ‘alto’, ma ciò che indaga resta per molti aspetti simile. Anzi, c’è di più: oltre agli sforzi fisici impressi sulla propria carne (della Portman qui, di Rourke in The Wrestler), assistiamo anche alle crudeli e soffocanti cicatrici della psiche, perché Nina nello sforzo di trovare un equilibrio tra ciò che crede di essere e la parte nera che attende di essere disvelata, compirà un viaggio, asfittico e terribile per lo spettatore, verso la follia. Nina deve abbandonare gli agiati e sicuri schemi verso altri maggiormente ambivalenti, staccarsi da una madre ex ballerina fallita che la opprime, esprimere ed esplorare la sua parte sessuale. Questo suo strisciante e silente desiderio di raggiungere e scoprire la sua parte inedita genera turbamenti che sfociano verso l’autolesionismo: Nina si ‘scarnifica’ alla ricerca del proprio demone sotto la pelle.

Il cigno nero è un thriller psicologico con venature horror, cupo e attanagliante nel riuscire a materializzare le paure e gli sforzi sovrumani che il raggiungimento di ciò che non siamo, o non riusciamo ad essere, porta con sé. La protagonista, perfetta nelle sue interpretazioni di danza più romantiche ed innocenti, fa della ricerca della perfezione tecnica la sua soddisfazione artistica, ma non riesce a sporcarsi con l’imperfezione del Cigno Nero, parte mancante che renderebbe la sua danza viva e coinvolgente, comunicante perché umana. La protagonista della pellicola diviene così metafora dello stesso film di Aronosfki che, con una pur sublime regia, trabocca qua e là in eccessi registici (molteplici allucinazioni deliranti della protagonista, quadri con volti dai tratti animati e alcune visioni che rasentano il kitsch). Il cigno nero sembra dividersi tra momenti eccessivamente misurati, mancanti delle necessarie sbavature in linea con la sua protagonista, e altri dal sapore azzardato e smisurato, a volte troppo reiterati. Mancando uno sforzo maggiore verso una narrazione più equilibrata, Aronofsky realizza un cigno un po’ zoppicante, mezzo nero e mezzo bianco.

Tutto questo a ben vedere, ma lo spettatore durante la visione è comunque risucchiato da uno specchio che riflette con forza le sue stesse paure, angosce, inibizioni, ansie e smarrimenti. Costretto a guardarsi negli stessi occhi bassi, incerti e insicuri della Portman, personaggio instabile, efficace nel rimandare quell’abisso che si lascia intravedere quando si tenta di superare se stessi. Il cigno nero resta una visione dolorante, che esala turbamenti altamente contagiosi. E di questo ad Aronofski gliene siamo davvero grati.

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3 commenti su “Il cigno nero di Aronofsky

  1. “Nina si ‘scarnifica’ alla ricerca del proprio demone sotto la pelle”… non ho ancora visto il nuovo film ma ho amato moltissimo il precedente e penso che il percorso di scarnificazione (che in qualche modo presuppone un’incarnazione) sia anzitutto quello dello stesso regista, passato dagli abissi solo mentali (e molto estetici) dei primi film a quelli più visceralmente umani (decisamente meno freddi) e politici (la competizione che prima crea false identità e poi esclude) degli ultimi film. Sembra insomma che abbia deciso di sporcarsi le mani (e la testa) con la realtà. Ciao veneziano!

  2. Questo film mi è parso una banale rappresentazione della psiche di una giovane donna (emancipazione rapporto figlia/madre; incontro con il desiderio maschile; specchio con il femminile). Il film propone un’immaginario riduttivo e stereotipato che non fa giustizia al complesso e ancora misterioso universo femminile. Anzi, come al solito, con un certo sadismo, lo mortifica esaltandolo nei sui aspetti più distruttivi. Sembra che certo cinema e non solo (moda, musica, pubblicità) non riesca a staccarsi dalla rappresentazione delle donne come eterne bambine, sante martoriate, donne abbandonate o fameliche del sesso. Questa estetica del dolore mi ha abbastanza nauseato.

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