Perchè sì

Perchè no

di Stefano Baldolini

 Premessa. Anzi due. Anzi tre. Tanto per essere chiari. Chi scrive non si ritiene un tarantiniano doc, né della prima, ndell’ultima ora. Non ama l’ostentazione della violenza, la sua analisi in chiave post moderna, o la sua vivisezione buona per qualche eterogenesi dei fini, difficile da decifrare. Chi scrive ha assistito a gran parte di Pulp Fiction (o Le iene) strisciando sullo schienale, le mani sudate, il lavoro su se stesso per ripetersi che “è solo un film”. Chi scrive ha deciso a freddo, a cavallo dei due episodi di Grindhouse, dopo essersi appassionato ai dialoghi vuoti delle quattro splendide cattive ragazze, per poi vedersele tranciare di netto in un incidente stradale, di non farsi fregare di nuovo, e di appassionarsi alla vicenda del cattivo (e immancabilmente s’è fatto fregare).

La seconda. Chi scrive non ama i cosiddetti B-movie, né le atmosfere dei film all’italiana anzi ’70, quelli decantati di recente da Tarantino stesso in opposizione al cosiddetto nuovo cinema italiano, (non foss’altro perché s’intuisce cosa c’è dietro – non a Tarantino – ma ai tentativi di sdoganamento del fenomeno, ossia: signori che avete provato a raccontare la Realtà con la maiuscola, sappiate che la stessa era lì a portata di mano e solo quelli – fasci in genere – che amavano ridere con il trash o godere con altri filmacci avevano capito tutto, il mondo è volgare, brutto e cattivo e
nessuna idea di progresso verrà a redimerlo).

La terza. Chi scrive non è un maniaco delle citazioni. Di quelli che raggiungono punte orgasmiche nel riconoscere brandelli di una colonna sonora in una suoneria di un cellulare, o poster di film celebri in locali Mid West. Anzi, una di queste notti, potrebbe (in puro stile tarantintiano) entrare con un machete tecnologico in una discoteca, mentre parte il revival delle colonne sonore dei cartoni animati, Goldrake, Candy Candy e Ufo Robot e chincaglieria varia che qualcuno ha deciso essere l’immaginario di una generazione di cerebrolesi disimpegnati.

Bene. Detto questo, Grindhouse, disperato, autoreferenziale, nero, sexy, è un mezzo capolavoro. Un’operazione che s’è depositata nella mia mente, come il residuo di sigarette in certi portaceneri di sale d’aspetto anni ’70. Definitivamente. Un residuo all’apparenza insignificante, buono per qualcheamatore, e improvvisamente in grado di leggere lucidamente certe sgommate del presente, certi salti di corsia, o sorpassi sulla destra.

Come non riconoscere nell’ossessione dello stantman-Mike l’ansia salvifica che assale i nostri fondamentalisti fuori tempo massimo?

Religiosi, politici, maniaci sessuali, editorialisti alla Magdi Allam… serial killer di professione o per diletto. Terroristi in sonno. In ritardo di un trentennio buono, alle prese con un mondo che è cambiato e che è andato in direzione opposta a quella per cui s’era vissuto, per cui ci si era battuti, ci si era amati e odiati. Figure stordite che s’aggirano tra i nostri paesaggi urbani e (meglio) suburbani, in attesa di un cartellone troppo sexy, o di certi piedi affusolati fuori dal finestrino. Il segnale: la lotta tra il bene e il male riprende. La melassa post moderna, post ideologica, post tarantiniana è finita. Si tratta solo di rimettersi sulla strada.
 
E una volta in strada, occhio ragazzacce, alle prese con le vostre suonerie appena scaricate, le vostre belle gambe levigate e i vostri sogni di gloria tra stelle e stelline, magari una di queste mattine, uscendo impasticcate da una discoteca, potreste incontrare una chevrolet giallona a righe marroni che viene contro mano. A tutta velocità. A prova di morte. Sappiatelo fin da ora: a meno che non abbiate fatto le stantwomen, solo un salto di montaggio vi potrebbe salvare.

di Raffaele Giannitelli

In realtà Grindhouse era il titolo di un film composto da due episodi diretti da Quentin Tarantino e da Robert Rodriguez; nella versione oggi nelle sale in Italia c’è solo quello di Tarantino intitolato A prova di morte che nella versione originariamente uscita negli Stati Uniti era molto più breve ed appunto accoppiato con il film di Rodriguez.

Nella prima parte del film un maniaco uccide ragazze (azione), nella seconda parte ragazze uccidono maniaco (appunto reazione).

Intento dichiarato del regista è quello di fare un film manierista, riproponendo storia e atmosfere da B-movies degli anni Settanta pieno di ragazze, auto di grossa cilindrata, sfide e localacci di provincia americana, tutto condito da scene violente e inseguimenti in auto.

Tutto questo l’autore lo trasla ai nostri giorni, le ragazze ascoltano musica con l’i-pod e si mandano continuamente sms con i cellulari, ma l’ambientazione è perfettamente riprodotta e, allo scopo di intervenire anche sulla percezione fisica con cui avviene la visione del film, non lesina salti di pellicola, improvvisi fuori fuoco e, per una decina di minuti, addirittura scene in bianco e nero.

Il film vero e proprio è molto divertente e percorso, soprattutto nella seconda parte, da una tensione fortissima; quindi, se di B-movie si tratta, sicuramente il risultato è quello di averne girato uno dei migliori. Infatti alla fine Tarantino, nel celebrare questo genere da lui così amato, riesce a coglierne alcuni aspetti tecnicamente e “filosoficamente” importanti su cui  ricostruisce sceneggiatura, fotografia e riprese da grande autore.

Certo, oltre alla tecnica non c’è molto altro e così il cinema che celebra un se stesso (comunque minore) non va troppo lontano. Assistiamo in effetti ad un prodotto “scisso”, ad una doppia possibilità di lettura: la prima è quella di un ottimo lavoro accademico, quasi una tesi di laurea su un certo cinema d’azione e sul tipo di fruizione che ha avuto ai tempi il suo massimo splendore, diventando un’indagine sociologica non sul sociale, ma sul prodotto che con il sociale interagisce, analizzando al microscopio appunto il prodotto stesso ricreato ad hoc in laboratorio. La seconda possibilità di visione/lettura, probabilmente più interessante, è più semplicemente l’aver realizzato un bel prodotto di intrattenimento che giustamente verrà ignorato a Cannes, rimanendo nelle sale due o tre settimane e non lasciando molte tracce di sé, al di là di alcune scene costruite con maniacale perfezione (dalla scelta dei personaggi a tutti gli oggetti che li circondano e li accompagnano).

Per questo film, poi, non scomoderei categorie come quella del post-moderno o altre sottili strategie interpretative: Tarantino si è sicuramente molto divertito a girarlo e interpretarlo, riempiendolo di personalissime icone musicali e riferimenti cinematografici. Non mancano, peraltro, i suoi tipici e lunghissimi dialoghi in automobile scritti con ritmi europei e raffinati, ma scambiati tra personaggi in tal senso improbabili ed ambientati in mondi alieni (chi ha mai sentito parlare di Lebanon in Tennesse).

Purtroppo l’interesse del regista nell’analizzare e raccontare meglio i suoi personaggi è pari a zero e di alzare lo sguardo dal suo micro/macro-cosmo tutto interno al cinema non se ne parla neppure. Capisco che Tarantino tema anche solo l’odore di una forma narrativa che possa rischiare un approccio retorico al racconto, ma così si impantana in una strana superficialità analitica, assai levigata e un po’ fine a se stessa. Appunto una sorta di saggio universitario dotto e molto brillante.

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One thought on “Grindhouse – a prova di morte

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