Perchè sì

Perchè no

di Alessia Brandoni

Come un qualsiasi libro di Dostoevskij ci sbatte dentro il mondo del suo autore con una verità che, intuitivamente, pare fondarsi sull’esperienza vissuta, così gli ultimi film di Lars von Trier ci appaiono sempre più somiglianti a demoni e esaltazioni appartenenti, prima di tutto, al cinquantasettenne regista danese. Tanto più che anche qui egli non sembra rinunciare al suo strumento critico preferito, ossia la provocazione come grimaldello per aprire le porte chiuse di chi, temendone lo sforzo e il sacrificio, preferisce conservare che sovvertire –lo spettatore, si sa, è spesso distratto. Questa prospettiva, dunque, vede entrambi gli artisti concepire la costruzione della propria opera come una sorta di autobiografia al tempo stesso morale e mitica, individuale e collettiva, finalizzata lungo un movimento che tenta di ricondurre allo stesso luogo esperienza e interpretazione, (accadere) interno ed esterno al soggetto. Valendo, evidentemente, almeno per chi condivide questa direzione, ancora un senso di fiducia che non tutto sia perduto nel non senso della pura soggettività, poiché “il senso della vita è sempre qualcosa di sovra-oggettivo, qualcosa di generale, di obiettivo e di impersonale” (L. Binswanger) -mettere assieme utopia e fine in una visione (anticipatrice) del mondo. E se Dostoevskij ci parla del dolore degli umiliati e del riscatto attraverso il sacro caos primordiale e la compassione, von Trier, almeno nei suoi ultimi tre film, non gli è poi tanto da meno, conducendoci con sincera irrequietudine e coraggiosa poliedricità dentro gli abissi della depressione e lungo le vette sublimi della creazione. Così che tra gli anatemi scagliati contro il film –linfa di ritorno per il sobillatore von Trier- quello di blasfemia finisce per essere anche il meno centrato, perché seppur il regista si definisca ateo, è abbastanza evidente come il percorso di Joe, alter-ego dell’autore o comunque figura-luogo dove far convergere ambivalenti pulsioni autobiografiche, si orienti lungo stazioni, ferite e ribellioni fin troppo cristologiche.

Non avremmo, beninteso, accennato a Dostoevskij, se non si fosse pensato che nel caso in cui il grande scrittore russo si ritrovasse a scrivere ora, di fronte alla proliferazione indistinta di immagini e al pesante velo nero dello spettatore, invece che la compassione egli sceglierebbe i registri corrosivi della provocazione. Ma il discorso corre parallelo tra i due, soprattutto, poiché medesimo è il cuore che ne illumina l’ispirazione, ossia l’osare andare avanti nel racconto (esistenziale e mitico) della caduta negli abissi, verso e oltre il limite più estremo, in quanto movimento necessario per conoscere la misura della propria umanità (e dell’umanità del mondo). Così Nymphomaniac, che ha l’andamento di una cronistoria selvaggia e poetica, vede i protagonisti, spinti dal caos e dallo stare in un mondo ipocrita e corrotto privo di radici e di meta, come costretti dentro un simile destino: più essi “si addentrino nell’eccesso della sensualità e del pensiero, tanto più vicini sono già a se medesimi e quanto più vogliono distruggersi tanto più vicini sono a riconquistarsi. I loro tristi baccanali non sono che convulsioni, i loro delitti non altro che spasimi dell’autocreazione” (dal saggio di S. Zweig “I personaggi di Dostoevskij”).

All’interno di una società dominata da dispositivi con cui si esplica il potere –ipocrisia in testa (esemplare la scena di seduzione sul treno in corsa al suono, easy rider, di Born to be wild, quella ricattatoria della moglie tradita, interpretata generosamente da Uma Thurman,quella all’opposto rivelatoria e realmente compassionevole di Joe adulta con il pedofilo, nonché la scelta, davvero felice, di aver inserito il “porno” dentro una narrazione sostanzialmente “normale”)- all’interno di una babele di tale truffaldina doppiezza, dicevamo, Joe non può far altro che distruggere i limiti e rigenerare se stessa (e noi, “noi altri”) attraverso il piacere (tonalità del primo volume) e il dolore (tonalità del secondo volume), lungo un dialogo continuo degli opposti. A guisa che il suo personaggio potrebbe apparire, e non senza fastidio, come l’unica figura innocente in un mondo di corrotti o di deboli, anche se una tale spiegazione trascurerebbe il rilevante fatto che in un film così poco realista tutto ha luogo e senso in quanto simbolo.

Da una parte c’è lei, l’angelo sterminatore dei rapporti di forza e, attraverso il riconoscimento di essi in riattualizzazioni rituali, al tempo stesso sacre e simboliche (il rapporto tra Joe e il master),dei meccanismi sadomasochistici metafore del medesimo potere. Del resto convergendo, in ciò, la provocazione di un artista –perché Joe, lo ripetiamo, è anche von Trier- contro l’ipocrisia delle istituzioni sociali che impediscono agli uomini di poter avere relazioni che non siano quelle di dominio. Ciò viene mostrato da von Trier con un doppio movimento: pessimista (in senso freudiano) quello razionale, esaltato e colmo di fiducia quello legato alla creazione/sublimazione –che comunque per il regista nasce sempre dal rapportarsi al caos e al dolore. L’obbedienza alle leggi come antidoto per la difettività umana –e quindi per l’inclinazione al male- è il vizio borghese, sembra inoltre dirci il regista. E dunque Joe (interpretata quasi fosse un proiettile ad aria compressa da Charlotte Gainsbourg, che infatti le dona un –pensiamo suo- concentrato di masochismo, tenacia ed energia trattenuta/oppressa –“nelle borse degli occhi/il grido vittimale/il diluvio salato”, scrive il poeta), incarna la parabola che vede nella disobbedienza (distruzione/creazione) la strada per la perfettibilità –e quindi verso il bene. A questo punto, e non senza qualche ragione, potrebbe accusarsi von Trier, come a suo tempo accadde con Dreyer, di credere unicamente alla realizzazione -cristiana e borghese- degli Assoluti (che fa il paio con la trascendenza implicita nella sublimazione artistica), in opposizione a quella, dialettica, orientata verso la trasformazione della realtà. Tuttavia, non possiamo non accorgerci come von Trier appartenga a quella categoria di artisti che, e spesso impietosamente, seguono un ragionamento fino al paradosso -categoria, questa, che implica tensione tra gli opposti cui ben si addice la continua altalena sincretica (postmoderna) alla quale ci sottopone l’autore.L’ambivalenza rimane. E un certo gusto cattivo, e ambiguo (martirio di Joe/Lars e sadismo di chi, quel sacrificio, lo mette in scena), del provocatore von Trier pure. Ma non dimentichiamo che alla base, almeno per noi, c’è la partecipazione del cinema di von Trier alle contraddizioni più generali della società (del suo processo e della sua messa in scena), con la conseguenza, un po’ come accadeva anche nel cinema di Fassbinder, di assumersi addosso entrambe le polarità che entrano in rotta di collisione nei giochi di potere. Dall’altra parte c’è Seiligman. Ovvero colui che contempla il mondo con gli strumenti finiti della ragione, colui che riconduce tutto a procedure, processi e leggi, seppure nobili come quelle che reggono una teoria filosofica o psicoanalitica (dal regista a tratti schernite tramite alcuni accostamenti prosaici). Da principio, in lui, l’ascolto del racconto di Joe appare animato da curiosità umana e da sincera compassione, ma piano piano, attraverso piccoli dettagli, Seiligman svela tutta la sua suberbia e pusillanimità (a parte il discorsetto confessionale finale, la difesa del politicamente corretto e soprattutto il “porco” affibbiato con disgusto al “pedofilo”). A ciò che all’inizio sembrava apertura all’altro e al dilemma (filosofico e umano), Seilgman, foss’anche suo malgrado, oppone un restare bloccato dentro l’autoreferenzialità del ragionamento logico –“sei fuori strada” o “questa è la digressione più debole che hai fatto” gli dice, con forza crescente, Joe.Von Trier, nel suo estremismo chiarificatore ( Joe chiede infatti a Seilgman di rispettare il patto di credulità che è elemento fondativo di tutte le forme che la realtà può assumere quando si rivela attraverso il racconto),sembra suggerirci come anche Seiligman sia sottomesso a un dispositivo di obbedienza (al dominio della logica e a ciò che esso produce all’interno delle correnti istituzioni sociali) che quindi, necessariamente, in lui non potrà che spingerlo a riprodurre relazioni di potere. Ma nella vita/opera della infinita dismisura (e del furore sempre più cupo e desolante, visti i tempi) e nella volontà di non scendere a compromessi di Joe, sta anche il suo salvacondotto per scendere in profondità nella materia viva dell’esistenza, a confronto con i grandi temi della morte, della vita, dell’amore, della dissimulazione, dei confini (sia di genere, anche cinematografici, che “ultimi”, come quello tra natura e cultura), della creazione. Von Trier, dunque, non è incoerente rispetto al personaggio del monaco-psicoanalista-filosofo perché, come abbiamo detto, non crede che quella parabola possa essere priva di ipocrisia e perché, sembra dirci, solamente il pensiero incarnato nell’esperienza può riconoscere (e creare) la verità. Solo con l’esperienza, e quindi con il corpo (che è anche il corpo a corpo con il film e con l’occhio/mdp), con la trasgressione/provocazione che spariglia e incide e con la sofferenza (insita nell’irrequietezza) si può tentare di strappare il velo nero della dissimulazione e tentare (artisticamente) di trascendersi verso un assoluto. A rimetterci, in tutto ciò, è ovviamente la relazione. L’attitudine relazionale e aperta del cinema e delle persone quando si trovano a vivere dentro una realtà specifica. La possibilità di cambiamento. Ma d’altra parte, se si ha il coraggio di andare avanti da soli e senza protezioni né imitazioni né ideologie, quando, cioè, si hanno delle urgenze, ambizioni e soprattutto delle visioni come quelle del regista danese, sarebbe un vero peccato normalizzarle mettendole sotto la morsa della realtà (oramai non più così attendibile, peraltro).

E a rimetterci, in ogni caso, è anche Joe/Lars. Dal momento che la forza di Joe, progressivamente sempre più in risalto, è anche la forza di chi ha rinunciato, di chi, cioè, ha fatto esperienza del limite e quindi, di conseguenza, anche della perdita –ciò valendo anche nella prospettiva, chiamiamola così, aristocratica: rincorrere un assoluto, che non si raggiungerà mai, implica lasciare dietro di sé molte perdite. Da qui una profonda e irriducibile malinconia esistenziale, un miscuglio di esaltazione creativa e solitudine infinita (che è poi la condizione di chi appunto crea; anzi, meglio, di chi si dispone all’atto creativo).

Nel mondo di von Trier, di conseguenza, Joe non può far altro che uccidere il pusillanime Seiligman e rigenerarsi (e rigenerarci).

In effetti una buona ragione per disporsi a vivere oltre il limite potrebbe essere proprio questa: vivere non avendo più molto da perdere –che è anche la condizione per fare spazio alla forza. Perché nella dismisura si perde qualcosa ogni secondo, si dissipa energia vitale a ogni passo, ma è soltanto dissipando energia che (nel dubbio) si crea bellezza.

I shot her!

Hey Joe

Tell me where you gonna run to now?

Hey Joe

C’mon tell me where you gonna run to?

Don’t you worry about me

I’m going way down South

Way down South where?

I’ma gonna be free

I’m going way down South

Way down South maybe outside Mexico Way

I’m gonna run,

Oh yeah

di Stefania Bonelli

Certi autori fa quasi paura avvicinarli, si teme di non essere all’altezza. Lars fa parte di questi. Avendo allevato negli anni, e con duro lavoro, uno stuolo di adepti e fanatici sostenitori-qualunque-cosa-lui-faccia si rischia la blasfemia a contrariarlo. E’ forse il timor dei, retaggio di un io sottomesso al principio di autorità indiscutibile del Signore delle immagini. Ma così è, ogni passaggio all’età adulta è segnato da una rottura con i propri padri e maestri, alla ricerca di un principio di individuazione.

E a questo punto è arrivata.

Già il battage pubblicitario che ha accompagnato l’uscita della prima parte aveva lasciato perplessi. Non è da lui si era detto. Allora si è provato a giustificarlo con la divisione imposta dalla censura che ha portato Von Trier a non fargli riconoscere la completa paternità dell’opera. Altri dubbi si sono poi aggiunti durante la lunga risalita.

Innanzitutto c’è da dire che il volume I di Nymphomaniac ha presentato interessanti spunti filosofico-cervellotici che attendevano un degno sviluppo nel volume II. Inutile dire che l’aspettativa è stata quanto mai disattesa per non dire delusa.

Il film si apre con un’immagine al buio. Subito dopo, una sordida pioggia-nevischio cade su vicoli che si snodano tra gli scantinati dei bassofondi dell’umanità. L’inquadratura successiva si ferma su un corpo di donna a terra, esanime e sporco di sangue. E’ Joe. Un uomo-felice, Seligman per l’appunto, al ritorno dalla spesa passa di lì, la trova, la soccorre e la porta a casa. L’incontro ha tutti i connotati di una rinascita e Joe, dopo il “parto doloroso” che la dona a questo misterioso prete junghiano, riprende forza e comincia a raccontare la sua storia che definisce quella di “una donna orribile”.

Nella lunga notte di resurrezione si susseguono le allegre e tristi avventure di una bambina prima, di una adolescente e di un’adulta poi che, senza alcuna pretenziosità indagatoria, si dice ninfomane. Dipendente senza alcuna causa apparente dal sesso seriale. L’esaltata degli impulsi sessuali, tra varie amenità, racconta che è arrivata a inneggiare alla vulva fino a fondare un club di fanatiche contro l’amore (non c’è niente del geniale Mercuzio shakespeariano in lei). L’intento è chiaramente di dissacrare tutto ciò che di borghese, ordinato e convenzionale esiste nelle relazioni umane definite in più momenti del film false.

Il prete-analista interviene ogni tanto con alcune ri-letture (da cui religio) simbolico-filosofiche che mostrano i temi tanto cari a Lars: dal determinismo alla teleologia fino a scomodare Bach e Fibonacci, con tanto di grafici, sezioni auree e sequenze numeriche per dialettizzare persino il senso di doppie penetrazioni asincrone (questo nel volume II). Altrimenti, l’esperimento estremo, lasciato a sé stesso e non interpretato, riuscirebbe solo a scatenare bisticci d’onore tra stalloni negri evidentemente insensibili alle delicatezze della divina proportione. Il tutto per di-mostrare a Joe come in realtà la sua vicenda si inserisca in una sorta di armonia cosmica, in cui tutto acquista senso perché ha un suo fine all’interno del disegno intelligente.

La morte dell’amato padre, che aveva introdotto Joe all’amore per gli alberi, per la natura svelandone il suo disegno armonico attraverso le differenti forme degli arbusti, getta ancora di più Joe nella compulsione disperata alla ricerca di un sollievo alla solitudine imposta o prodotta dai suoi comportamenti; intanto la madre, “una gelida stronza”, viene liquidata en passant da un’unica inquadratura che non concede nulla a facili psicologismi d’accatto. Il dolore è lì, da dove venga non è dato a sapere. Anche la disperazione di Uma Thurman abbandonata dal marito per la conturbante e impassibile Stacy Martin (Joe da giovane) conferma col suo lucido piano un disegno necessario.

Il racconto si interrompe quando Joe rincontra il suo primo “amore” Jerome, insignificante e incapace meccanico che in seguito prova a fare carriera nella ditta di trasporti dello zio e che poi scappa con la sua segretaria lasciandola nella disperazione. Ma l’amore si sa è irrazionale e insensato, è un’alterazione percettiva della realtà, una passione che sostituendosi all’altra passione irrompe e mette in crisi l’ossessiva meccanicità della vita di Joe.

Nel volume II la ritroviamo donna matura (finalmente nei panni di Charlotte Gainsbourg) che, dopo aver raccontato del suo primo orgasmo mistico da bambina in cui vengono messe in rassegna le visioni di Messalina e della Meretrice di Babilonia, esplicita più chiaramente qualcosa che è abbastanza chiaro fin dall’inizio: la sua insoddisfazione sessuale, che ora è diventata anorgasmica, non è tanto espressione di una libertà femminista quanto una deficienza psichica o organica prodotta da una causa misteriosa che produce sofferenza in quanto porta a cercare ossessivamente una soddisfazione irraggiungibile.

Joe è una donna che soffre e Jerome non le basta più. Non riuscendo a provare più piacere deve ricorrere ad alte forme di perversione per “sentire”. E da questo momento in poi è un precipitare negli abissi fino al disfacimento totale della vita privata di Joe che viene lasciata da Jerome, il quale darà poi in affidamento il loro piccolo Marcel.

L’antiborghese Lars proclama attraverso l’assoluzione finale del prete-filosofo-felice che Joe è una vera rivoluzionaria. Una ribelle che con i suoi atti produce il più bel ordinamento dell’universo, apparentemente un cumulo di rifiuti ammucchiati lì insieme. Anche se oramai è a tutti evidente, grazie al racconto del maieutico Seligman, quanto Joe sia la quintessenza della sofferenza senza un perché o forse solo perché apparente, poiché teleologicamente iscritta nella realtà delle cose. Ecco l’universo costruito da Lars: Seligman è uno studioso, è vergine, ha imparato a soddisfare i suoi piaceri attraverso l’intelletto. Joe è una sessuomane compulsiva, il suo piacere passa prevalentemente attraverso la vulva. Jerome è insulso consumatore di relazioni; P., la giovane che assiste Joe nell’ultimo periodo della sua storia nel recupero crediti e che poi diventerà prima la sua amante e poi quella di Jerome, è un’amorale figlia di criminali priva di scrupoli che alla fine non potrà non seguire quella che è la sua natura.

Ognuno segue il suo destino.

Tutto rientra però in un ordine, numerologico (persino demonologico con riferimento eccessivo a T. Mann), armonico o naturale che dir si voglia. E’ nel disegno teleologico che tutto questo ha un senso, a nessuno è dato saperlo ma è così. E’ un dogma a cui Lars ci chiede di affidarci ciecamente. Von Trier passa duecento quaranta minuti a costruire un sistema perfetto. Discutibile ma sensato.

E alla fine cosa fa? Come un creatore impazzito, dopo aver distribuito senza alcuna casualità i colori sul suo quadro assoluto, prende il pennello e lo imbratta tutto con il più banale dei finali che mai si sarebbe potuto immaginare e che qui non possiamo non svelare al lettore. I due protagonisti si salutano; dopo aver parlato tutta la notte Joe si sente finalmente sollevata, libera forse dalla sua dipendenza e si mette a dormire. Seligman la saluta con garbo e poi, mentre lei dorme, le si infila nel letto quasi pregandola: “Ne hai scopati a centinaia..!”.

Lo spettatore sussulta e si dice: ma che succede ora? Von Trier dove ha preso questo finale che è esteticamente brutto quanto una bestemmia sparata in una chiesa vuota? Che cosa vuole fare? Dimostrare d’amblée che l’ipoteca nevrotica di tipo deterministico-freudiano alla fine s’impone, con perentorietà eschilea (stiamo parodiando il citar a caso di Von Trier, capace di passare da Mann e James Bond senza soluzione di continuità né senso del pudore comparativo) sul dinamismo coscienziale di tipo simbolico-junghiano…? Un gesto eclatante, forse il gesto più rivoluzionario e antiborghese che ci sia? Ebbene, in questo finale buttato a casaccio, come un tarocco impazzito, c’è un proclama che più borghese non si può: épater le bourgeois, stupire per stupire all’interno di un codice predefinito che non ha nulla di rivoluzionario, né di dirompente. Che cosa avrebbe prodotto di nuovo sotto il cielo l’istanza rivoluzionaria del folle creatore? E non vale cercar di ribaltare le carte facendo credere che il vero mentecatto sia l’uomo-felice mentre il proprio punto di vista coincide con la libertaria e sofferente Joe. Senza Seligman, infatti, nessun racconto filmico ci sarebbe stato e Joe sarebbe ancora lì per terra nell’attesa della sua venuta. E allora cosa significherebbe il finale del provocatorio Lars se non la più grande risata in faccia all’idiota che è in noi? E’ un dire il disegno c’è ma appare e scompare a mio piacimento, noi qui dentro siamo, ma io qui faccio come mi pare.

Sicuramente la trasformazione più riuscita nel gioco delle parti è quella dei suoi spettatori ridotti a un branco di masochisti disposti a farsi fare tutto nel nome di Lars l’onnipotente.

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5 commenti su “Nymphomaniac di Lars von Trier

  1. Il mancato riconoscimento del regista della paternità dell’opera, in distribuzione in due distinti volumi, sebbene abbia il sapore dell’artificio pubblicitario, a mio parere, appare ampiamente giustificato.
    Nimphomaniac non è, evidentemente, un film commerciale, né pornografico, anche se la pornografia gioca la sua parte, molto importante, nel complesso quadro rappresentato.
    L’aver ridotto questa parte a pruderie vuoyeristica con l’apparente paternalistica benevolenza censoria, altro non è che un incoraggiamento ipocrita a dare un taglio preciso per una visione “controllata” e eterodiretta del film, francamente insopportabile; attendiamo con impazienza la versione integrale.

    Quello che si è visto è un viaggio onirico analitico a mente ben sveglia, in una dimensione che va oltre le esperienze del vissuto, oltre l’esplorazione dell’inconscio, oltre la speculazione filosofica sulle relazioni che regolano l’universo umano, l’anima e il pensiero, oltre le rappresentazioni di ciò che lega la sessualità con la creatività, con l’arte e con il dolore. Un film “oltre”.

    È un viaggio nei fantasmi, nelle ossessioni, nelle ansie, nelle paure, nei desideri e nelle paure di quei desideri che compie la mente sofferente, geniale, di Von Trier.
    In un piccolo spazio buio, ma immenso, con squarci luminosissimi accecanti, affollato da fantasmi e da proiezioni fantasmagoriche del proprio, e dell’universale terrore, si svolge il viaggio circolare nell’angoscia, che si vorrebbe dominare proprio cercando di rappresentarla nel suo intero, senza nulla escludere, in un atto creativo di fusione e repulsione dal quale si vuole trarre la forza per dominare la paura per l’insignificante. Questo spazio è dominato dal mostro, dal delirium tremens (un capitolo dell’opera), dalla psicosi e dalla paura che essa genera ma anche dall’ammirazione e gratitudine che Von Triar gli tributa in quanto immensa forza distruttiva e creatrice. ,.

    In questo spazio compresso, in questa atmosfera amniotica primordiale, in questo cosmo, operano e vengono agite le idee, il pensiero, le sensazioni, i ricordi, le immaginazioni, le pulsioni e il terrore. La ribellione verso le costrizioni assume sembianze mortifere e il gioco delle parti, tra il racconto del sé e il vergine medico terapeuta, sciamano-sacerdote, trova il suo epilogo geniale.

    Si possono dare molte letture e molte saranno valide, nel senso che il materiale fornito allo spettatore è tale che si possono seguire molti fili logici o comunque molto stimolanti, con profitto; io credo che nel farlo si operi comunque una riduzione. Come la visione di un quadro potente del quale si afferra la composizione, si rimane affascinati dall’insieme e stimola al contempo la ricerca del particolare, del dettaglio significante, ma il valore maggiore risiede nell’unità,.

    La maniacale tendenza (ossessiva) a ordinare il caos in capitoli, a geometrizzare il vuoto, a ricercare rapporti esatti nelle deformazioni del dolore e nelle lacerazioni dell’anima (e del corpo), spinge Von Trier verso la prediletta posizione di pseudo controllo, dove il gerarca è contemporaneamente il soldato, il regista è l’operatore, il dominatore il dominato, il torturatore il torturato. Una fusione di istinti, volontà, frustrazioni, paure ed esaltazioni che ha pochi riscontri nel cinema contemporaneo, una rappresentazione che appare come una ricerca dell’umano, del divino, dell’ Assoluto .

  2. Per me, Il senso del film non ha nulla di gratuito e pretestuoso, ma recupera una filosofia antica, quella della scoperta del sé. La protagonista sperimenta la pratica cristiana di penitenza corporale, nella quale, la rivelazione di sé è contemporaneamente distruzione di sé. Per quanto riguarda il doppio finale, non sono d’accordo con chi scrive, non lo trovo assolutamente una manipolazione del regista. Anzi lo interpreto come una dichiarazione che va in senso opposto, della serie “non prendetemi troppo sul serio”. Del resto, tutta la storia potrebbe essere inventata dal personaggio Joe. Lo stesso Seligman, dubita sulla sua veridicità. Ma Joe risponde” bisogna credere a una storia per dargli un senso”.

  3. Quello che tu dici Virginia, mi sembra una possibile chiave di lettura che non sarebbe poi così improponibile. Quello che vorrei chiederti è allora perchè, se il percorso di Joe è critiano, nel finale non perdona compassionevolmente il pusillanime Seligman mentre invece lo fa fuori.
    s.b.

  4. Certo questo film ci impone ‘un gioco delle parti’, ma è anche vero che, spettatori o registi, alla fine tutti ‘pupi siamo’ e allora in questo gioco ci si può lasciar cadere senza opporre resistenza. Anche perché qualcuno come me, può esser uscito dopo la visione di Nymphomaniac volume 1 ammaliato dalla magia del virtuosismo cinematografico di von Trier, incuriosito dalla successione di Fibonacci (tentativo di dare ordine a quella che potrebbe apparire uno sterile erotismo compulsivo, modo per razionalizzare un istinto che alla ragione si sottrae?), affascinato da accostamenti volutamente dissacranti, con Bach accanto all’Heavy Metal e pesca e botanica rilassatamente proposti come antidoto alla filologica meditazione.
    La visione del volume II lascia l’amarezza di promesse non mantenute, in questo concordo: alle immagini fa seguito un impianto didascalico, le citazioni si affastellano quasi senza ordine e manca quella forma di comunicazione immediata che solo la macchina da presa può dare, sostituita da una verbosità eccessiva. Salverei però almeno due sequenze del secondo volume. L’immagine dell’albero solo in cima alla montagna, emblema di quella solitudine esistenziale che è l’unica ‘verità’ non sottoposta alla corrosiva ironia che continuamente aleggia su ogni parola, ogni vicenda del II volume. Sola nella sua ricerca del piacere Joe, solo nella sua verginità Seligman, rinchiuso in una casa in cui il sole si percepisce unicamente in un pallido barbuglio del muro di fronte,ove l’autoindulgenza può di fatto essere predicata ma non vissuta.
    E salverei anche l’incriminato finale che almeno conferma che tutto è ironia, che la lezioncina di Seligman non può essere il messaggio, che si possono rovesciare nel loro opposto anche alcuni aspetti dell’ultimo episodio paradossali e volutamente poco verosimili. Come dire è vero tutto e il contrario di tutto. Ha ragione la giovane amica con cui ho visto quest’ultima opera di von Trier: forse sarebbe stato meglio girare un film solo. Ma tanto, registi o spettatori, ‘pupi siamo’, ‘pupi’ sofferenti e molto soli pronti a giocare questo splendido ‘gioco delle parti’ che è l’esistenza la quale, non a caso, nel buio inizia e nel buio finisce, riscattato dal catartico provvidenziale inopinato colpo di pistola.

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