La forma che una storia può prendere -romanzo, racconto, film, poesia- è fatto che riguarda non tanto la vicenda in sè, quanto piuttosto il respiro dell’autore che decidendo di raccontarla ne fa una cosa invece che un’altra. Se Niccolò Ammaniti, in questa prospettiva, riesce a far decollare i suoi personaggi contraddittori, dunque complessi, attraverso una scrittura semplice, spiegata e ironica, Gabriele Salvatores, trasponendo la medesima storia in una forma cinematografica, ne ingolfa dopo pochi metri l’esprit per difetto ed eccesso: semplificazione dei personaggi (e dell’intreccio) e riduzione dei punti di vista da una parte, eccedenza di scene madri molto complicate e spettacolari dall’altra. Con la scusa di volersi rifare a modelli archetipici (il padre, il figlio e il folle di shakespeariana memoria) e fiabeschi (Cappuccetto Rosso nel bosco), Salvatores rinuncia ad approfondire tanto il contesto della storia, ovvero il Nord-Est italiano razzista e di morbosa intimità di cui non basta mostrare le famose villette a schiera e i padroncini delle fabbriche, quanto i paradossi dei protagonisti che, diversamente dal tratteggio veloce eppure disteso e ricco di sfumature di Ammaniti, risultano imprigionati (e banalizzati) in un eccesso di follia permanente. Forse non è un caso che in questa avventura sopra le righe Salvatores abbia coinvolto Filippo Timi (il padre nazista violento e tenero) ed Elio Germano (il folle capace di astuzie e nefandezze), due attori bravi che però, se non tamponati, tendono a esagerare. Lo stilema del film, in questo senso, è Germano in ginocchio e con le braccia aperte sconquassato dalla musica che spazia, in un random diegetico ben poco casuale, dal tormentone irresistibile di Robbie Williams, alle stelle cadute di Loredana Bertè, ai tramonti ispirati di Elisa. Ovviamente giù lacrime e grossi patimenti in sala, anche se, fatto altrettanto ovvio in casi come questo, tutti cancellati al primo angolo fuori il cinema. Emozioni un poco d’accatto che non turbano i sogni di un bambino, figuriamoci quelli dei vecchi re delle terre buie del nord.  Forse Salvatores funziona meglio quando complica e stratifica le sue storie e intuizioni psico-estetico-esistenziali (Quo Vadis, Baby? e Denti), anche quelle più semplici e apparentemente lineari (i primi road-movie girati -chissà- pensando alle derive ondivaghe di Paolo Conte).

In fondo anche il libro “Io non ho paura” è più bello del film.

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