Europa ’51, nella coraggiosa e donchisciottiana filmografia di Roberto Rossellini, rappresenta, con la sua sconvolgente e spiazzante modernità di forma e contenuto, uno dei titoli che hanno più contribuito ad accompagnare il cinema italiano dalla stagione necessaria e combattente del neorealismo alla possibilità di una più complessa e profonda analisi del rapporto tra individuo e società, dal punto di vista psicologico, antropologico, culturale (l’altro titolo che mi viene in mente è Cronaca di un amore di Michelangelo Antonioni, non a caso l’ altro Don Chisciotte di un cinema insofferente a provincialismi ed etichette da esportazione).
“Come ci comporteremmo oggi, in Europa, nel 1951, se una donna rinunciasse a un marito facoltoso, a una vita agiata, a tutti i suoi amici per vivere in strada e aiutare i poveri?”.
Era stato questo il quesito da cui Rossellini era partito per dare vita al suo personaggio di Santa Laica, una donna dell’alta borghesia che cerca il senso di un dolore assoluto, intimo e privato come la morte di un figlio, suicida perché convinto di non essere amato proprio dalla madre, nel donarsi completamente e incondizionatamente, anima e corpo, all’Altro, nello specifico i poveri, i reietti, gli emarginati di una città magmatica, virulenta e, almeno nel ’51, ancora vitalmente e disperatamente contraddittoria come Roma.
Il corpo e l’anima in questione appartenevano alla sostanza e all’immagine di Ingrid Bergman, calata dall’alto del divino e iconografico culto di Hollywood nella sacralità terrena, carnale e quotidiana che Rossellini andava cercando per la strade, alimentando il corto circuito tra la maschera e lo smascheramento di Ingrid e i volti (e le voci) così anonimi e così unici delle “persone reali”, in grado di rimandare non più solo all’immediatezza di un quadro storico e sociale (il traumatico e caotico post guerra) ma alla possibilità del contatto con una dimensione insondabile, archetipica, misteriosa della natura umana.
In questo film, la controparte, la Società, nella figura del marito della Bergman, mostra di non comprendere e non accogliere questa ricerca caparbia che, di fronte all’incomprensione e al rifiuto, si fa ossessione quasi cieca, e la stigmatizza nella prigione psichica della follia e dell’Istituzione a lei deputata, il manicomio.

Camille Claudel

Ora, nel ripercorrere l’esperienza della visione di Europa ’51, i contatti e le simmetrie con Camille Claudel 1915 si sono fatti strada in maniera sempre più prepotente a partire da quel titolo cronachistico, che dice già di chi si sta parlando e di quale preciso momento storico della sua vita, il 1915. Ma, come per Rossellini l’Europa e il 1951 erano il contenitore storico/geografico dentro cui sviluppava le sue riflessioni su un’umanità che, chiusa nel suo individualismo esasperato, ha perso il senso di comunità e di condivisione nella ritualità del sacro, anche per Bruno Dumont la storia della scultrice francese e del primo periodo che trascorse internata in un convento adibito a manicomio sono le coordinate attraverso cui è possibile avere accesso al corpo e all’anima di Camille, intuirne lo spirito ostinato tra le piaghe della rassegnazione, il brivido carnale e selvaggio della scultura in un lampo allucinato dello sguardo o in un ghigno di soddisfazione, la forza del desiderio per Rodin, il celebrato scultore francese che fu prima il suo mentore e amante e poi la sua nemesi,nella paranoia persecutoria.
E anche per Dumont c’è un corpo attoriale che si è tanto generosamente offerto a fare da collegamento tra la distanza più che mai virtuale tra il culto divistico alimentato dalle ceneri di uno star system demodé e il concetto tangibile, in carne ed ossa, di performer di un cinema che non ha più voglia di raccontare storie, ma processi vivi: Juliette Binoche si immerge completamente nuda, un nudo frontale, nella vasca da bagno in cui Camille viene forzata a lavarsi e si cala dentro il cinema di Dumont, che non concede nulla di più, dal punto di vista stilistico ed estetico, rispetto a quello che ha deciso di mostrare: Camille, nel 1915. Si tratta di uno sguardo, il suo, a cui calza come un guanto la definizione di “rigoroso” o “essenziale”, con quella misura nella scelta delle inquadrature, dei silenzi, dei volti, degli snodi drammatici, persino nella durata temporale di un’ora e mezza.

Ma è un rigore apparente, che sotto la scorza rude e documentaristica cela un’anima ossessionata, magniloquente, affamata di vita e riconoscimento e consumata dal talento così come lo è la Camille della Binoche, e questo è rivelato nella prova alta e altra che la diva francese offre, dandosi anima e corpo (si, torna quest’espressione) a tormenti, paranoie e demoni.

E pare trovare forma, qui, la volontà di andare oltre l’impatto di un realismo descrittivo, così come aveva cercato di fare Rossellini, mettendo in contatto il volto della Binoche e la sua espressione di martire laica con i volti autentici di donne affette da reali disturbi psichiatrici, che incarnano il doppio di loro stesse nel 1915, più vere del vero, a smascherare Juliette la performer (e, dunque, a rendere anche lei più vera del vero) e a echeggiare quanto il senso di solitudine e di sconfitta di Camille potesse essere più forte di ogni inquadratura e ogni soliloquio.
C’è poi, ancora, il senso del Sacro che per Camille, una volta espletato l’abbandono di Rodin, quello della famiglia e l’allontanamento dalla scultura fonte primaria di tormento ed estasi, rimane l’unico e ultimo senso possibile: e se nell’Irene\Ingrid di Rossellini si esternava nel fare ed essere per gli altri, per la Claudel è un movimento intoiettivo, rivolto verso e contro se stessa, l’affidarsi esclusivo ad una silenziosa e sfocata grazia divina, nell’attesa e nella speranza di una “resurrezione” che non avverrà mai (Camille morirà in manicomio nel 1943).

Camille Claudel

Non c’è compassione o semplicemente comprensione nel mondo di Camille Claudel nel 1915 e Dumont fa portavoce di questo rifiuto il fratello della scultrice, lo scrittore Paul Claudel, e il suo volto impassibile, impenetrabile, attraversato da quella benevolenza caritatevole, espressione di una relazione con il Sacro così distante dalla dilaniata ricerca interiore di Camille, ma completamente incentrata sul riconoscimento di un ordine divino, di una misura ultraterrena a cui sottomettersi e appellarsi per dare una giustificazione e un contenimento alle proprie azioni.

L’incontro tra fratello e sorella procede, come tutto il resto del film, per “negazione”, in quanto si tratta più di un non incontro, di un’impossibilità ad entrare in quella qualità e intensità di contatto che, percepiamo, fu tra di loro, perché nel qui ed ora del 1915 entrambi trincerati dietro le loro prescritte realtà: e il pragmatismo misto alla rigorosa, neutra etica cristiana che Paul applica alla specifica circostanza non è meno respingente ed ostile delle paranoie persecutorie e delle aspirazioni romantiche di riscatto che Camille nutre nei confronti dei suoi usurpatori.

Nella Therese di Alain Cavalier, in quel caso la storia di una santa canonizzata Therese di Lisieux, c’è una scena in cui un’altra suora immerge un dito nel fiotto di sangue uscito della bocca della con-sorella moribonda per tubercolosi e in odore di santità e poi lo assaggia, quasi a voler dare un sapore, una consistenza, un limite all’astratto e infinito senso del Sacro e al suo misterioso contatto con le cose terrene.
Il martirio laico di Camille/Juliette mi ha lasciato la medesima sensazione fisica addosso, un dolore livido e vivido di ferite ancora sanguinanti e, com’era stato per Irene/Ingrid, la convinzione che non esiste nulla di più sacro, assoluto e rituale di un corpo umano spogliato ed esposto nella sua essenziale, primordiale nudità.
Come un desacralizzato, blasfemo, scomposto inno:“L’amore non è una marcia trionfale….è un freddo, spezzato Halleluja!”

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One thought on “Camille Claudel 1915 di Bruno Dumont-Cronaca di un martirio laico

  1. Ripensavo, ancora un po’ confusamente dopo la breve discussione di ieri che la Camille di dumont sia metafora dell’alienazione dell’artista declinata all’umanita che sottoposta ad una coercizione sviluppa un fortissimo duplice complesso di tradimento: quello della famiglia|societa e sopratutto forse di se stessa (non sono neanche più un essere umano dice). L’artista (come il mistico) in genere nutrono un intimo desiderio di fuga dalla realtà, che permette loro di essere superiori al mondo che li nega e li esilia e di sfuggire anche attraverso ciò tutte le collettività coercitive, (famiglia-società-istituzione).ma si nega il mondo in realtà (per diventare altro per sbarazzarsi della propria esistenza e recuperarla in altra forma)opponendosi con valori propri, di trasgressione, nell’impossibilità di recitare ogni giorno una parte non autentica (scena del teatro) e quindi di un tradimento individuale. ?

    E’ anche la condizione dicotomica che vive costantemente l’attore ‘confinato’ per altro in un ruolo e che aspira alla ricerca dell’autenticità e difficilmente ci riesce, io credo sia anche per questo forse che binoche (non a caso forse anche il manifesto Camille/binoche Claudel/dumont attore/regista in un rapporto di sudditanza, abbia chiesto di interpretare questo ruolo, forse per provare a riscattarsi

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