Riprendiamo il discorso da Billo, la cui importanza principale è quella di toccare, in un modo alquanto personale e inusuale, uno dei temi meglio affrontati dal cinema italiano contemporaneo: il rapporto tra immigrazione ed integrazione. Questo, infatti, sembra essere il comun denominatore principale della multiforme produzione recente nostrana. Sono anni, ormai, che un argomento così forte e così sentito dalla popolazione, qualcosa che ha molto poco di astratto perché basta scendere sotto casa e il tema (spesso problema) è sotto gli occhi di tutti, è sviscerato, in più di un caso con risultati soddisfacenti, dal nostro cinema sociale.

Potremmo partire dall’ormai lontano (pionieristico per certi versi) e assolutamente imperfetto Pummarò di Michele Placido (1990) e risalire fino ai più recenti Apnea, Come l’ombra, Saimir, La giusta distanza. Passando per Vesna va veloce, Provincia meccanica, L’orizzonte degli eventi. Fino ad arrivare a Il resto della notte, Lettere dal Sahara, Le ferie di licu e Mar Nero. Più tanto altro, ovviamente, abbastanza per una lunga riflessione, una pubblicazione o un’interessante retrospettiva. Quasi sempre, tuttavia, il tema immigrazione/integrazione è stato (ed è) sondato, dal cinema italiano ( e non solo italiano) in maniera super problematica e molto drammatica, a testimonianza di un linguaggio duro che si adegua ad un tema molto delicato. E, a parte la magia musicale de L’orchestra di Piazza Vittorio, le vite disperate che sbarcano sulle nostre terre (tutt’altro che benevole ed ospitali) sono raccontate quasi sempre come un viaggio doloroso in cui la speranza annega nella disillusione.

Sta qui l’eccezione del piccolo e vivo Billo, un film il cui titolo non rende del tutto giustizia a una pellicola fatta di realismo minuto, delicato ottimismo e sanamente cinico umorismo. Billo-Il grand Dakhaar, recita il titolo completo dell’opera seconda di Laura Muscardin (già attiva con interessanti esperimenti documentaristici), narra la storia di un'immigrazione riuscita, di una salita ad ostacoli compiuta con fatica e silenzioso successo. Non è mai televisione, tuttavia, e se lo stereotipo buonista o cattivista tenta di aggredire il film in più tratti del cammino, non riesce mai a stordirne la personalità e l’originalità, anche perché intervengono sequenze di valida espressività ed acuto ingegno a combatterne la pericolosità. C’ è del romanzo, ovviamente, ma non è mai patetico, mai irritante, semmai il contrario.

Billo è una storia realistica in molta parte, una favola sociale moderna e compatta, considerando la produzione che si avverte avventurosa e la pochezza dei mezzi a disposizione della brava regista Laura Muscardin, già attenta a tematiche forti con il suo Giorni (un film di malattia ed omosessualità). Da un certo punto di vista, Billo somiglia molto a Le ferie di Licu di Vittorio Moroni, perché in entrambe le storie c’è un continuo salto spaziale dai luoghi d’origine dei protagonsiti a quelli della loro forzata emigrazione. Ed ecco, allora, l’analisi multiculturale compiuta da entrambi i film, leggera ma incisiva: l’origine, la storia e qualche informazione utile su alcune delle tante facce che incontriamo ogni giorno nelle nostre città. In entrambi i lavori si racconta il loro mondo, tra matrimoni combinati, ambienti domestici, lingua, canzoni e tradizioni. Le ferie di Licu (il cui paesaggio culturale si divideva tra Roma e il Bangladesh) era molto forte nel linguaggio ed era stato uno dei film italiani più interessanti della sua stagione. Billo ( il cui paesaggio culturale è diviso tra Roma e il Senegal) è una commedia sociale, intelligente e simpatica, fresca nel comportamento e capace di parlare ad un pubblico che invece non è stato convocato.

Il film, infatti, è uscito, nel quasi silenzio generale, in due sole sale romane, ed ha resistito per qualche settimana con le sue forze. Erano gli stessi giorni in cui un altro piccolo film italiano, un'acciughina solo in parte gioiello, stava imperversando nelle sale nazionali dopo che la buona sorte, del tutto meritata, lo aveva letteralmente baciato nei giorni  dell’ultima mostra veneziana. Parliamo di Pranzo di ferragosto, esperimento scarno, singolare, simpatico e ben organizzato, reso giustamente visibile dai suoi meriti, ma non certo troppo lontano dalla schiettezza accattivante di un pellicolino dolce, amaro e parlante come Billo, uno di quei film di cui il pubblico italiano avrebbe bisogno e che non avrebbe nessuna difficoltà a digerire. 

Curiosità : Billo è prodotto, oltre che dal cantante senegalese Youssou N’Dour (che ha anche composto le musiche, compresa la bellissima versione senegalese del "Barcarolo Romano" di Romolo Balzani), da un organismo chiamato "The Coproducers", un progetto nato nell’aprile 2005 da un’idea di Eros Puglielli, Marco Bonini e Gabriella Blasi. Si tratta di un sistema produttivo alternativo per far rinascere il cinema italiano lontano dai circuiti produttivi ufficiali. Tutto il cast tecnico ed artistico sono gli unici proprietari della pellicola. E’ quindi un sistema di produzione che realizza un prodotto audiovisivo in coproduzione con tutti i partecipanti del film, i quali diventeranno, in cambio del loro contributo produttivo, proprietari di una quota dei diritti di sfruttamento economico della pellicola.  Complimenti a tutti quelli che hanno realizzato Billo, un piccolo film che merita di essere visto.

   Un altro film che ci è piaciuto è Mar Nero, scritto dal regista Federico Bondi insieme ad Ugo Chiti. La pellicola incrocia due tematiche sociali fondamentali per il nostro presente: l’immigrazione e la terza età. Lo fa con un linguaggio asciutto e totalmente estraneo alla risata, con una serie di dialoghi sintetici e qualche immagine di efficace valore poetico. Tutto il resto è quotidiano, vicenda paradigmatica mostrata per accumulo di informazioni e sviscerata attraverso alcuni inevitabili snodi di drammatica sceneggiatura. Un’anziana donna (Ilaria Occhini) vive sola in una casa dalle parti di Firenze. Non ha un carattere facile ed è tormentata da continui e lancinanti dolori alle ossa. Ha un figlio, Corso Salani, sposato altrove e altrove collocato professionalmente. Si chiama Enrico ed è un ragazzo normale: non è alcolizzato, non si droga e come molti altri figli di quest’Italia liquida, si preoccupa di garantire un’adeguata assistenza all’anziana madre.

Il film comincia con l’uomo che apre la portiera dell’auto ad una giovane ragazza romena: lei si chiama Angela e sogna una famiglia normale in un paese che, almeno teoricamente, dovrebbe garantirle condizioni di vita accettabili. Quelle che al suo paese (il tempo del film è quello del 2006) non ha. Suo marito, infatti, pur lavorando in fabbrica e dovendo compiere ogni giorno lunghi spostamenti, non guadagna più di cento euro al mese. Se volessimo tentare un paragone tra la giovane Angela di Mar Nero e l’altrettanto giovane domestica romena protagonista del recente film di Francesco Munzi (
Il resto della notte) dovremmo parlare di due donne piuttosto diverse. La prima offre una complessità sociale che la seconda sintetizza in una specie di ingenua purezza e se la prima affonda il suo personaggio nelle piaghe della peggio immigrazione romena, la seconda mostra una superficiale (non in senso negativo) fenomenologia della vita comune a molte ragazze dell’est che giungono nelle nostre case per prestare servizio presso uomini e donne deboli e soli. Angela non incespica in loschi affari criminali, spende il suo tempo libero (poco) tra le preoccupazioni private e le parole e gli sguardi con connazionali di ogni personalità. Subisce con silenzioso spirito di sacrificio l’ingiustizia di provvedere, in un paese straniero, ai propri desideri di stabilità. I momenti migliori del film sono quelli in cui affiorano le distanze socio-economico culturali, marcate ma non così bipolari come rappresentate nell’ingenuo immaginario di chi emigra oggi in Italia, tra due paesi costretti ad un rapporto forte e complicato. Sono piccoli quadretti, quasi rubati alla vicenda madre del film ma capaci di parlare tra loro fino ad essere sommati in un mazzetto che ci dona un documento interessante su quello che la televisione e la chiacchiera da mercato rionale non possono spiegarci.

Sono frammenti di esistenza ben organizzati in una storia di sentimenti, che diventano perfetti per irrobustire lo scaffale tematico di quello che è, a nostro modo di vedere, l’argomento che meglio lega il cinema italiano contemporaneo: il tema immigrazione /integrazione. La parte privata del film, il rapporto di complicità /solidarietà/amicizia tra due donne diverse per età, cultura ed estrazione sociale, serve soprattutto a rendere credibile quanto appena detto sopra. E per farlo naturalmente, si avvale di una efficacia espressiva senza la quale nulla, nella pellicola, avrebbe senso. Il film era stato l’unico lungometraggio italiano in concorso a Locarno e il Med film festival ha offerto la possibilità di ri-osservare da vicino questo positivo esordio italiano. Federico Bondi, il bravo regista di questo film tratto da una vicenda reale, (il quale non ha nessuna parentela col Sandro politico e aspirante poeta) non ha ancora incontrato la sala. L’augurio della nostra rivista è di farlo quanto prima, nella speranza che la distribuzione sia degna di questo nome e che questo magro e solido Mar Nero non sia visto solo da super appassionati o addetti ai lavori.

A presto, nella speranza di documentare ancora un cinema italiano vivace, interessante, utile e perchè no, bello! 

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